Tether sfida le agenzie di «rating» dopo il declassamento a «spazzatura»

«Indossiamo il vostro disprezzo con orgoglio. I modelli di rating classici creati per le istituzioni finanziarie tradizionali hanno storicamente portato gli investitori privati e istituzionali a investire il proprio patrimonio in società che, nonostante fossero state attribuite un giudizio “investment grade”, sono crollate spingendo le autorità di regolamentazione di tutto il mondo a mettere in discussione tali modelli, l’indipendenza e la valutazione obiettiva di tutte le principali agenzie di rating. La tradizionale macchina propagandistica della finanza si preoccupa quando una società cerca di sfidare la forza di gravità di un sistema finanziario ormai allo sbando. Nessuna azienda dovrebbe osare staccarsi da esso. Tether ha invece creato la prima azienda sovracapitalizzata nel settore finanziario, senza riserve tossiche. Eppure, rimane estremamente redditizia. Tether è la prova vivente che il sistema finanziario tradizionale è così fallimentare da essere temuto dagli imperatori senza vestiti».
Con questo (lungo) post su X, il CEO di Tether si è scagliato contro la decisione, di mercoledì, dell’agenzia di rating americana S&P Global Ratings di tagliare il giudizio sulla capacità di Tether (USDT), la principale stablecoin al mondo, di mantenere il suo ancoraggio al dollaro, tagliandola da 4 (limitata) a 5 (debole). In pratica, l’equivalente di «junk» in ambito creditizio. La revisione negativa, ha scritto S&P, riflette l’aumento dell’esposizione ad attivi ad alto rischio (tra cui Bitcoin, oro, prestiti garantiti, obbligazioni societarie) delle riserve di Tether – a fine settembre ammontavano al 24% delle riserve, rispetto al 17% dell’anno precedente – e le persistenti lacune nell’informativa sulla composizione delle stesse.
Il Bitcoin, ha rilevato ancora l’agenzia di rating, rappresenta ora circa il 5,6% degli USDT in circolazione, superando il margine di sovracollateralizzazione del 3,9%, il che indica che la riserva non è più in grado di assorbire completamente un calo del suo valore (dal picco di ottobre attorno a 125 mila dollari il principale bene crittografico al mondo è crollato di quasi il 30% attorno a quota 82 mila, risalendo in questi giorni a quota 91 mila).
S&P rileva inoltre che «gran parte» delle riserve sono investite in titoli obbligazionari statali USA a breve termine (T-bill) e altri equivalenti di liquidità in dollari. La componente di T-bill, in particolare, è scesa al 64%, ben al di sotto degli standard di sicurezza attesi per un attivo considerato «stabile».
E poi c’è l’oro. Secondo un calcolo effettuato dalla banca d’investimento americana Jeffries, Tether è diventato uno dei maggiori acquirenti di bullion nel 2025, accumulando oltre 116 tonnellate – circa 14 miliardi di dollari – e superando persino gli acquisti trimestrali di alcune banche centrali. Tuttavia, la strategia solleva interrogativi: il GENIUS Act esclude l’utilizzo dell’oro a garanzia delle riserve obbligatorie previste dalla legge per le stablecoin ancorate al dollaro. Eppure, Tether ha aumentato la quota di bullion anche dopo l’approvazione della legge, lo scorso il 18 luglio (la piena applicazione è prevista però a gennaio 2027).
Secondo esperti legali interpellati recentemente dal «Wall Street Journal», il GENIUS Act potrebbe rendere insostenibile la presenza di Tether sul mercato statunitense, a meno di una radicale revisione delle pratiche di trasparenza e gestione del rischio. La società, che ha recentemente trasferito la sede in El Salvador per beneficiare di un quadro regolatorio più lasco, potrebbe puntare a un’interpretazione favorevole da parte dell’amministrazione Trump, che considera il Paese centroamericano «allineato» agli standard USA.
Una «banca» senza regole
«Tether è identico a una banca ma non è soggetto ad alcuna autorizzazione o supervisione – osserva Antonio Foglia, vicepresidente del Cda della Banca del Ceresio -. Riceve dollari in deposito e rilascia token digitali, impegnandosi a restituire dollari in cambio dei token emessi. Coi dollari ricevuti dovrebbe, come le banche, fare investimenti prudenti e liquidi in modo da poter onorare i propri impegni. E, come le banche, ha un capitale che fa da cuscinetto e assorbe le perdite, o gli utili, tra il rendimento degli investimenti che fa e i dollari che deve ai portatori dei token che nella sostanza sono identici ai certificati di deposito negoziabili emessi dalle banche».
Stando a quanto dichiarato da Tether, al 30 settembre 2025 il capitale proprio(equity) ammontava a 6,78 miliardi di dollari, a fronte di passivi per 174,45 miliardi, cioè i token emessi. «Si tratta di una leva finanziaria di 23 volte, dissennata e ben maggiore di quella delle grandi banche tradizionali», annota Foglia.
«È un business spettacolare – prosegue il banchiere luganese – perché Tether, a differenza delle banche, non paga interessi sui token che ha emesso e trattiene quindi gli interessi e gli utili sugli investimenti, a vantaggio dei propri azionisti: Devasini, Ardoino e pochissimi altri. Con una piccola parte di questi soldi, gli azionisti di Tether avrebbero potuto risanare i bilanci di Tether e allinearli alla normativa e al buon senso facendo in modo che tutti i token emessi fossero coperti da investimenti in dollari liquidi e sicuri. Avrebbero messo in sicurezza una gallina dalle uova d’oro quale non si è praticamente mai vista nella storia della finanza. E invece hanno preferito pagarsi dividendi miliardari (oltre 10 miliardi di dollari solo nel 2025), il che equivale in sostanza a scappare con la cassa e li hanno in buona parte investiti attraverso la finanza tradizionale, dimostrando così nei fatti che nemmeno loro credono veramente alle cripto».
