Energia

Petrolio, i dilemmi sauditi sulla capacità di estrazione

Il governo di Riyad ha chiesto all’Aramaco, la società petrolifera del Regno parzialmente privatizzata, di limitare a dodici milioni di barili giornalieri il greggio estratto - All’origine della decisione motivi ambientali ma anche di equilibrio in seno all’OPEC+
Impianti sottoutilizzati. ©Reuters/Ahmed Jadallah
Gian Luigi Trucco
27.02.2024 06:00

Il Governo saudita ha ordinato al suo gigante petrolifero Aramco, la società più capitalizzata e profittevole del mondo, che si appresta a collocare un’altra quota azionaria sul mercato, di bloccare i piani di espansione e di limitare la sua capacità di estrazione a 12 milioni di barili giornalieri, un milione in meno rispetto all’obiettivo fissato in precedenza. In occasione di una conferenza sul clima svoltasi a Dharhan il ministro dell’Energia, principe Abdulaziz bin Salman al-Saud, ha motivato l’iniziativa con un maggiore impegno del settore petrolifero del Regno nei confronti della transizione energetica, del gas, della petrolchimica e delle energie rinnovabili.

Riyad, unitamente ad altri partner dell’OPEC+, in particolare Emirati Arabi Uniti, Kuwait e Iraq, detiene la quasi totalità della cosiddetta spare capacity a livello globale, cioè il potenziale di estrazione aggiuntiva che potrebbe essere immesso sul mercato in caso di conflitto, disastri naturali o altri eventi eccezionali.

Le riserve «trattenute» sono dell’ordine dei tre milioni di barili giornalieri per l’Arabia Saudita (cinque secondo l’International Energy Agency, IEA), un milione di barili per gli Emirati, 400 mila per l’Iraq e 300 mila per il Kuwait. Dal canto suo l’Iran, membro OPEC+, opera al di sotto delle sue potenzialità ma un incremento di produzione è difficile a causa delle sanzioni USA cui è sottoposto.

Prezzo sostenuto dai tagli

Queste riserve sono il frutto dei tagli che l’OPEC+ ha deciso a partire dal 2022 e confermato ancora recentemente. I tagli, definiti con il concorso della Russia, hanno portato a sostenere il prezzo di mercato del greggio, determinando un calo di offerta complessivo di circa sei milioni di barili giornalieri. Al di fuori dell’OPEC+ la spare capacity è limitata a poche centinaia di migliaia di barili giornalieri da parte di Azerbaijan e Kazakistan. La Russia ha nel frattempo riorientato i suoi mercati, privilegiando l’Asia (oltre il 60%), sfruttando un’ampia «flotta fantasma» ed operando cocktail con greggio di altra provenienza al fine di aggirare le sanzioni e vendere anche a Paesi occidentali.

Il principale regolatore e influenzatore del mercato è comunque l’Arabia Saudita, in grado di aumentare l’offerta in caso di bisogno, così come di tagliare quando necessario per sostenere il prezzo, anche contrastando le pressioni di Washington.

È ovvio che il livello di tali riserve, sia quello effettivo che quello percepito dagli operatori, influenzi i prezzi del greggio e, in questa fase particolare, la loro dimensione sopra la media ha contribuito a bilanciare i rischi e gli impatti negativi frutto della crisi in Medio Oriente e nel Mar Rosso. Ciò ha limitato la fascia di oscillazione del Brent intorno ai 76-80 dollari al barile, con un target di medio termine non superiore a 85.

Geopolitica e prese di profitto

Tuttavia, pur rimanendo il prezzo del greggio all’interno di una banda di oscillazione contenuta, l’interesse degli investitori si manifesta e l’incremento avvenuto nelle scorse settimane a seguito delle tensioni in Medio Oriente, unito all’interruzione di attività di alcune raffinerie in Ucraina e negli Stati Uniti, ha condotto a significative prese di profitto.

Ora il prezzo del Brent quotato a Londra si colloca intorno a 81,20 dollari al barile, segnando +3,60% circa da inizio anno, dopo aver superato i 95 dollari nel settembre 2023.

D’altro canto, gli attacchi alle navi da parte dei ribelli yemeniti Houthi con droni e missili in prossimità dello Stretto di Bab Al-Mandeb, nel Golfo di Aden e nelle acque adiacenti continuano, nonostante la presenza delle unità navali militari americane e di altri Paesi e la crisi medio-orientale nel suo complesso sembra ben lontana da una soluzione.

A complicare il quadro, fonti indiane di intelligence segnalano un accordo fra Houthi, Hamas e Al Shabaab, costola di Al Qaeda nel Corno d’Africa. In effetti è stata verificata una ripresa dell’attività da parte della pirateria somala, con l’obiettivo di colpire le navi che, rinunciando a Suez, scelgono la rotta dell’Oceano Indiano per circumnavigare l’Africa. Rimangono poi tutti i rischi che pendono sul fatidico Stretto di Hormuz, porta critica del Golfo, di fatto controllata da Teheran.

Sul fronte della domanda e dello scenario macroeconomico, si disputa su soft landing, recessione fra le due sponde dell’Atlantico e su di un possibile decollo della Cina. Le banche centrali temono una ripresa dell’inflazione e si mantengono caute sulla loro politica monetaria. Tassi alti per più tempo influirebbero negativamente anche sulla domanda petrolifera. La IAE prevede un picco della domanda di petrolio non prima del 2030, mentre la visione OPEC+ appare più ottimistica già a medio termine, come ha ribadito martedì scorso Haitham Al Ghais, segretario generale dell’OPEC, respingendo la tesi secondo cui la richiesta rivolta ad Aramco sarebbe conseguenza di un indebolimento della domanda.