L'analisi

Quando l’Europa va meglio degli USA sul piano della crescita economica

Nel primo trimestre 2025 gli Stati Uniti hanno registrato una flessione, mentre nell’area europea c’è stato il segno positivo – Bisognerà attendere la fine dell’anno per fare un bilancio, ma quanto sta accadendo mostra già alcuni danni della guerra dei dazi di Trump
©Richard Drew
Lino Terlizzi
Lino Terlizzi
05.05.2025 06:00

I dati sulla crescita economica nel primo trimestre di quest’anno giocano contro la linea protezionista del presidente USA Trump. Gli Stati Uniti hanno infatti registrato una discesa del Prodotto interno lordo in rapporto al trimestre precedente. Nel contempo, le maggiori economie europee hanno invece registrato un seppur moderato segno positivo. In questi anni gli USA hanno manifestato una tendenza ad una miglior crescita rispetto alla media europea, dunque a maggior ragione è interessante vedere cosa accade e per quali motivi.

Le valutazioni

Prima di passare alle cifre, è opportuno fare alcune precisazioni di metodo. In generale i dati sulla crescita economica più significativi sono quelli su base annua, cioè relativi a un intero anno o al raffronto fra un determinato trimestre e lo stesso periodo dell’anno precedente. L’andamento nell’arco di dodici mesi dà infatti indicazioni migliori sul trend di fondo di un’economia, mentre il confronto di un trimestre sui tre mesi precedenti può più facilmente risentire di fattori temporanei. Occorre però anche dire che in questo caso di inizio 2025 il raffronto su base trimestrale ha un significato particolare, perché il presidente USA Trump si è insediato in gennaio e ha affermato che a breve avrebbe lanciato una nuova offensiva sui dazi. Altra precisazione: il fatto che la contrazione o l’aumento trimestrale di un PIL sia di uno zero virgola non deve trarre in inganno; nei raffronti trimestre su trimestre spesso le percentuali possono essere contenute, ma dietro ci sono comunque valori considerevoli in termini di beni e servizi.

Secondo l’agenzia governativa USA Bureau of Economic Analysis (BEA), il PIL statunitense nel primo trimestre 2025 è sceso dello 0,3%; si tratta di un’inversione di tendenza, non accadeva dal 2022 che negli USA ci fosse il segno negativo. Viceversa, secondo le prime stime di Eurostat, l’ufficio di statistica dell’Unione europea, nell’area è stato prevalente il segno positivo. Il PIL su base trimestrale è salito dello 0,3% per l’UE e dello 0,4% per l’Eurozona; tutte le quattro maggiori economie dell’area hanno avuto un aumento: Germania 0,2%, Francia 0,1%, Italia 0,3%, Spagna 0,6%. È un errore sottovalutare o irridere queste pur contenute percentuali europee, indicandole come ininfluenti o da semplice prefisso telefonico. Ciò per almeno due buone ragioni: da un lato il contesto geopolitico ed economico è molto complicato e ogni resilienza va valutata positivamente; dall’altro, vale come detto il fatto che le variazioni su base trimestrale sono spesso meno marcate rispetto a quelle su base annuale.

I motivi

I motivi per cui gli USA hanno registrato una contrazione del PIL nel primo trimestre sono chiaramente legati alla nuova guerra dei dazi varata da Trump. Il forte aumento delle importazioni americane, che ha giocato contro il PIL USA, è evidentemente dovuto in larga misura all’intenzione di accumulare beni e servizi esteri prima dell’incremento dei dazi. Per una parte degli esperti, la discesa del PIL è inoltre dovuta anche al fatto che molte imprese statunitensi hanno usato il maggior import per fare scorte e non per incrementare la propria produzione, vista l’incertezza che pare crescere anche tra i consumatori USA. In un modo o nell’altro, la linea dei dazi ha comunque fatto da freno.D’altro canto, molte delle maggiori economie europee sembrano invece aver tenuto, grazie a una vocazione all’export che in molti casi nel Vecchio continente è maggiore rispetto agli USA e grazie a consumi e investimenti che in questi anni certo non hanno avuto vita facile ma che tra gennaio e marzo nel complesso hanno dato segnali di resilienza. Naturalmente, sia per gli USA sia per l’Europa bisognerà vedere come andrà nei prossimi mesi; se la guerra dei dazi continuerà su basi ampie, il rischio di recessione si farà più concreto per tutti, ma forse per gli Stati Uniti prima ancora che per l’area europea.

La Svizzera

Si attendono i dati ufficiali sul primo trimestre di due economie europee non UE di primo piano, il Regno Unito e la Svizzera. Salvo sorprese dell’ultima ora, nessuna delle due dovrebbe avere il segno negativo nel trimestre. Per l’economia elvetica, in marzo la SECO ha indicato una crescita annua dell’1,4% nel 2025, al netto degli eventi sportivi; la BNS le ha fatto eco, con una previsione dell’1-1,5%. In aprile, a dazi USA annunciati, il Fondo monetario internazionale ha stimato per la Svizzera uno 0,9% annuo per il 2025; la UBS dal canto suo sempre il mese scorso ha indicato un possibile 1%, con un eventuale abbassamento in caso di inasprimento dei conflitti commerciali generati dagli Stati Uniti, ma senza individuare per ora una recessione.

Un dollaro indebolito e un franco super nelle acque molto mosse delle valute

Dollaro debole, franco forte, euro a metà strada. In sintesi, è la situazione per queste tre rilevanti valute. Il biglietto verde americano da tempo registra una tendenza all’arretramento. Se si prende il cambio euro/dollaro, si può vedere come, dopo il precedente periodo di risalita della valuta statunitense, dall’estate del 2022 il trend sia stato di graduale discesa per il dollaro, al di là di alcuni rimbalzi. Dall’inizio di quest’anno, con il ritorno di Trump alla Casa Bianca e con la nuova ondata di dazi USA, la perdita di terreno per il biglietto verde si è accentuata. Il rapporto euro/dollaro danza attualmente tra 1,12 e 1,13 dollari per 1 euro. A questi livelli la discesa della valuta USA sull’euro è di circa il 5% rispetto a un anno fa. Considerando la media delle oscillazioni tra le valute principali, si tratta di una percentuale non piccola. Ma l’arretramento della divisa americana è addirittura di quasi il doppio in rapporto al franco svizzero, dunque molto ampio. Il cambio dollaro/franco è infatti ora tra gli 0,82 e gli 0,83 franchi per 1 dollaro, con una discesa della valuta statunitense di circa il 9% rispetto a dodici mesi fa. È vero che il franco ha guadagnato terreno su tutte le monete principali, essendo un riferimento per parecchi investitori esteri e svizzeri - molti lo definiscono bene rifugio - e ciò è ancor più vero quando crescono le incertezze geopolitiche ed economiche. Tuttavia, l’ascesa del franco sul dollaro nell’ultimo anno è stata particolarmente rilevante. A riprova, si può chiudere il triangolo guardando al cambio euro/franco, che è tra 0,93 e 0,94 franchi per 1 euro. La valuta elvetica ha guadagnato circa il 4% sull’euro nell’ultimo anno. Anche qui, una percentuale non piccola, ma non paragonabile a quella relativa al guadagno sulla valuta USA. Dietro la discesa del dollaro ci sono da una parte i timori di molti investitori sui conti pubblici USA, caratterizzati da deficit e debito elevati, dall’altra la tendenza di non pochi Paesi - in particolare di quelli dell’area BRICS, dunque soprattutto emergenti - a dipendere meno dal biglietto verde. La valuta USA resta il principale mezzo di pagamenti e di riserva, ma lo è meno rispetto ad anni fa. Le banche centrali comprano oro anche per ridurre la quota del dollaro nelle riserve. A tutto ciò si aggiungono i timori su un forte rallentamento economico, o addirittura recessione, per gli USA, a causa dei dazi. Le difficoltà per il dollaro e per i titoli di Stato americani sono cresciute nelle scorse settimane. La debolezza del dollaro va bene agli USA, che riescono così a facilitare il loro export? Per una parte degli esperti sì, dicono che era quello che voleva Trump, che sta facendo pressione sulla Federal Reserve (che si pronuncerà questa settimana) perché abbassi i tassi, per aiutare l’economia e per far scendere ulteriormente il dollaro. Un’altra parte degli esperti sostiene che la discesa della valuta USA è ormai già andata oltre e che altri arretramenti favorirebbero poco l’export americano e renderebbero invece ancor più caro un import statunitense già gravato dai dazi. Secondo quest’altra interpretazione la Fed potrebbe tagliare un po’ i tassi per aiutare l’economia, ma non più di quel tanto perché teme appunto un import troppo caro e fiammate di inflazione. La Banca nazionale svizzera (BNS), che si pronuncerà in giugno, ha il problema inverso e deve decidere come frenare il franco. Una valuta elvetica così forte ha il vantaggio di rendere meno caro l’import svizzero e di contribuire alla bassa inflazione; al tempo stesso, ha lo svantaggio di creare ostacoli all’export elvetico. La BNS potrebbe tagliare ancora il tasso guida, ma siamo già allo 0,25% e dopo lo 0% ci sono solo i tassi negativi, terreno controverso; potrebbe inoltre riprendere gli acquisti di valute estere, ma deve tener conto del fatto che il suo bilancio è già molto ampio. Equilibrismi della BNS. Con un franco che può essere più o meno forte, mai debole.