L'analisi

Quei vantaggi del libero scambio e quel freno della linea dei dazi

Vale la pena di ricordare il contributo molto positivo delle minori barriere economiche sui versanti di PIL, prezzi, occupazione – Ora la nuova offensiva del presidente USA Trump fa risalire il protezionismo e apre la strada a maggiori difficoltà per commerci e crescita
© KEYSTONE (EPA/BAGUS INDAHONO)
Lino Terlizzi
Lino Terlizzi
28.07.2025 06:00

Siamo in un quadro di aumenti dei dazi e questo contesto con ogni probabilità ci accompagnerà almeno per tre anni e mezzo, cioè per la residua durata del mandato del presidente USA Trump, che ha fortemente voluto l’incremento del protezionismo. Quanto accadrà in seguito, dopo il 2028, dipenderà naturalmente dagli assetti politici che ci saranno a quel punto negli Stati Uniti e a livello internazionale. Sul piano economico è sin troppo facile prevedere che, con i dazi, i commerci e la crescita economica mondiale avranno un ulteriore freno, che si aggiungerà a quello, ampio, delle tensioni geopolitiche. Sino a che punto l’economia globale frenerà, ebbene questo dipenderà ovviamente anche dal livello che raggiungeranno i dazi.

Il percorso

Visto che siamo ormai in una fase di maggiori barriere commerciali, e stiamo dunque andando verso i conseguenti effetti economici negativi per tutti, vale a maggior ragione la pena di ricordare quanto al contrario lo sviluppo del libero scambio – e dunque la tanto vituperata maggior globalizzazione economica - abbia portato soprattutto vantaggi. Uno sviluppo del libero scambio che non ha certo cancellato tutte le barriere, ma che le ha almeno ridotte in modo importante, in particolare negli ultimi decenni. Se partiamo dal 1990, per non andare in questa sede troppo indietro nel tempo, possiamo vedere come il contenimento di dazi e barriere si sia accompagnato a un aumento notevole del Prodotto interno lordo. Le stime prevalenti indicano che il PIL mondiale nominale, misurato in dollari USA, era di circa 24mila miliardi nel 1990, mentre nel 2024 è stato di circa 111mila miliardi.

È chiaro che a questa progressione hanno contribuito molti fattori – pensiamo, tra gli altri, ai nuovi prodotti e all’innovazione tecnologica – ma è francamente difficile pensare che l’aumento del libero scambio, con minori barriere economiche, non abbia giocato un ruolo di rilievo. Una osservazione classica è che ciò che conta non è però solo l’ammontare complessivo del PIL, bisogna vedere anche qual è il PIL pro capite, cioè la media per persona. Dividendo il totale del PIL per l’ammontare della popolazione mondiale si arriva alla risposta. Secondo la Banca mondiale, nel 1990 il PIL pro capite era di 4.322 dollari, nel 2024 di 13.673 dollari. In teoria si potrebbe ottenere un aumento di questo valore anche rimanendo fermi o quasi come PIL, se ci fosse meno popolazione. Ma non è stato così, come si sa: la popolazione globale era di circa 5,3 miliardi nel 1990 e di circa 8,1 miliardi nel 2024. Il risultato è stato ottenuto insieme a un forte aumento della popolazione, dunque l’incremento del PIL pro capite va considerato per il verso giusto.

Meno distanti

La crescita economica è stata dunque di buon livello, al di là delle singole oscillazioni annue, nel complesso degli oltre tre decenni, tale da permettere questo incremento del PIL pro capite. Le tensioni geopolitiche, i conflitti bellici, la pandemia, alcune misure protezionistiche già nel primo mandato di Trump hanno certo determinato alcuni rallentamenti della crescita nell’ultimo decennio. Ma riduzioni marcate del PIL pro capite mondiale nei 35 anni considerati ci sono state solo tre volte: nel 2009, nel 2015, nel 2020. Arrivati a questo punto del discorso sappiamo che sorge spesso un’obiezione, quella sul fatto che la media nasconderebbe in realtà un forte incremento delle diseguaglianze, con un accumulo dei vantaggi che riguarderebbe in tutto o in gran parte la quota alta dei redditi. Fortunatamente non è così.

Se si guarda al mondo nel suo complesso, i Paesi emergenti hanno ridotto la distanza dai Paesi avanzati, si pensi a Cina, Brasile, India e a molti altri; da questo punto di vista, il mondo è oggi meno diseguale. Se si guarda ai singoli Paesi, la realtà è mista, alcuni hanno ridotto le diseguaglianze e altri no; il libero scambio facilita la diffusione del benessere, questo è oggettivo, poi devono essere però anche i vari Stati a fare le giuste scelte politiche ed economiche sul piano interno. A tutto ciò si deve anche aggiungere che la povertà estrema, che riguarda la parte di popolazione mondiale con entrate quotidiane inferiori ai 2,15 dollari USA, secondo la Banca mondiale è scesa in modo molto marcato, dal circa 38% del 1990 al circa 9% del 2024; ciò significa che dai circa 2 miliardi del 1990 si è scesi ai circa 700 milioni del 2024. Non basta ancora, questo è chiaro, ma non si può neppure negare che ci siano stati progressi.

Inflazione e salari

Un altro punto rilevante è che la globalizzazione economica basata sull’ampliamento del libero scambio ha permesso di contenere in modo non secondario l’inflazione. Scambi più estesi, con minori dazi e barriere, infatti consentono di limitare meglio il rincaro, contenendo i prezzi di un numero non indifferente di beni e servizi. Al di là di alcune impennate (l’ultima considerevole è stata quella del 2022-2023, con l’effetto congiunto post pandemia-guerra in Ucraina), la tendenza dell’inflazione è stata chiaramente al ribasso. E ciò ci porta anche a un’altra obiezione ricorrente, quella di una contrazione dei salari reali che sarebbe stata provocata dalla globalizzazione economica. Ma in realtà il salario reale è dato dal salario nominale corretto appunto dall’inflazione, dunque quando quest’ultima è bassa c’è una migliore difesa del salario reale. Naturalmente, occorre sempre che anche il salario nominale sia a livelli adeguati, ma l’effetto inflazione conta.

L’International Labour Organization (ILO) nel suo rapporto 2024-2025 sulle retribuzioni indica per i salari reali nel mondo un trend di tenuta. Dai dati forniti, che vanno dal 2006 al 2024, emerge che nei 19 anni considerati solo una volta, nel 2022, c’è stata una contrazione annuale (-0,9%). Nell’arco degli altri anni l’aumento più marcato è stato il 3,1% del 2007 e quello più contenuto l’1,2% del 2008. Nel 2023 l’aumento è stato dell’1,8% e nel 2024 del 2,7% (sulla base dei primi due trimestri). Di nuovo, anche su questo versante ci può essere l’osservazione che si tratta di una media mondiale che in realtà nasconde andamenti molto diversi nelle varie aree. La stessa ILO però indica anche le variazioni per il gruppo G20, disaggregando poi quest’area in economie avanzate ed emergenti. Dal 2006 al 2024 per il G20 nel suo complesso c’è stata pure una sola contrazione annua. Per le economie avanzate del gruppo le contrazioni sono state non più di 4 in 19 anni, per le economie emergenti (che chiaramente puntano anche qui a ridurre la distanza) secondo l’ILO non ci sono state discese annue dei salari reali in questi quasi due decenni.

Inoltre, l’ILO afferma anche che nei due terzi dei Paesi dall’inizio degli anni Duemila la diseguaglianza salariale, cioè la differenza tra i livelli salariali alti e quelli bassi, è diminuita a un tasso medio tra lo 0,5% e l’1,7%. Occorre dunque anche tener conto dei progressi nelle fasce più basse e per le altre fasce non bisogna confondere i casi dei maxi stipendi per una parte dei manager con la media reale dei salari alti, che ovviamente è a un livello non altrettanto elevato. Le riduzioni più significative delle diseguaglianze salariali si sono verificate secondo l’ILO nei Paesi a basso reddito, dove spesso c’è più strada da fare anche in questo capitolo. Nei Paesi a reddito medio-alto e alto la diminuzione delle differenze salariali è stata meno consistente, ma c’è stata. Nonostante questi progressi, i livelli eccessivi di diseguaglianza nelle retribuzioni sono sempre un problema da affrontare, attraverso politiche salariali adeguate. Ma è molto significativo vedere come con scambi economici più globali i salari reali a livello mondiale nel complesso non siano scesi e come le diseguaglianze non siano cresciute, anzi siano state almeno in parte ridotte.

Il lavoro

È interessante anche osservare quale sia stato l’andamento per quel che riguarda la disoccupazione nel mondo negli ultimi decenni. Considerando la grande evoluzione nell’utilizzo di nuove tecnologie e al tempo stesso il forte aumento della popolazione mondiale, si sarebbe portati a pensare che il tasso di senzalavoro sia aumentato. Tanta tecnologia (più facilmente diffusa attraverso lo sviluppo del libero scambio), tanta popolazione in più, dunque alla fine una percentuale di disoccupati più alta. Ma non è così. I dati della Banca mondiale indicano che nel 1991 la media di disoccupazione nel mondo era del 5,1%, mentre nel 2024 era del 4,9%. Non è una grande differenza, ma attenzione, è qualcosa che gioca a favore della situazione creata con i decenni di globalizzazione economica ed è anche significativa se si tiene conto appunto di tecnologie e popolazione, fattori che determinano in ampia misura il quadro. È vero che ci sono stati, e ancora ci sono, cambiamenti radicali sui mercati del lavoro, spesso difficili da gestire. Non tutto va bene, c’è ancora da fare. E tuttavia anche su questo versante c’è stata tenuta.

Ieri e oggi

Questo quadro complessivo, non perfetto ma con molti aspetti positivi, viene ora seriamente intaccato dalla pesante offensiva dei dazi attuata da Trump. C’è da sperare che le cose non vadano troppo male, che il rallentamento economico non si trasformi in recessione internazionale. E c’è da sperare che gli Stati Uniti stessi a un certo punto si rendano conto del loro grande errore. Nel 1930 gli USA introdussero lo Smoot-Hawley Tariff Act alzando di molto i loro dazi, con l’obiettivo di proteggere le imprese statunitensi dalla concorrenza estera. Risultato: gli altri Paesi risposero con i controdazi e tra il 1929 e il 1934 i commerci internazionali calarono di oltre il 60%. Quando si cominciò a smontare una parte del protezionismo, le cose iniziarono a migliorare. Oggi l’economia mondiale è più articolata, non è detto che il danno sia ampio come quello degli anni Trenta. Ma certo ci saranno difficoltà in più. Nel frattempo, l’apertura economica va sempre difesa, vanno fatti ancora accordi di libero scambio con tutti i Paesi che ci stanno. In attesa di tempi migliori.

La posizione della Svizzera nel globale

La Svizzera ha tratto non pochi vantaggi dallo sviluppo del libero scambio dagli anni Novanta ad oggi. L’economia elvetica è più aperta di molte altre ed ha quindi potuto usufruire in modo ampio dell’incremento degli scambi economici globali. Il Prodotto interno lordo svizzero, al di là delle oscillazioni nei singoli anni, ha avuto nel complesso un buon passo. Ciò ha consentito tra l’altro al PIL pro capite elvetico, cioè alla media per persona, di essere a livelli elevati, anche in presenza dell’aumento della popolazione. Secondo la Banca mondiale in Svizzera il PIL nominale pro capite nel 1990 era pari a 39.574 dollari USA; nel 2024 era pari a 103.669 dollari, cifra che ha consentito alla Confederazione di rimanere nel gruppo di testa a livello mondiale. Per dare un’idea, nel 2024 gli USA erano a 85.809, la Germania a 55.800, la Francia a 46.150, l’Italia a 40.226. Inoltre, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, la Svizzera è rimasta in un’area di diseguaglianze interne che non risulta tra le più alte a livello internazionale. Secondo l’indice Gini sulle diseguaglianze (1= diseguaglianza massima), fornito da Statista, nel 2024 gli Stati Uniti erano a 0,42, l’Italia a 0,36, la Svizzera a 0,33, la Germania e la Francia a 0,32. Se si tiene presente che nella classifica mondiale dell’indice Gini si va da massimi attorno a 0,60 a minimi attorno a 0,20, si può vedere come la Confederazione si sia mantenuta in una posizione intermedia, con un grado di diseguaglianza ben inferiore a quello degli USA e in sostanza non distante da quelli dei maggiori vicini europei.

Focus Economia non uscirà nel mese di agosto. Appuntamento a lunedì 1. settembre.

In questo articolo: