La polemica

Quell’oro della Banca d’Italia che ingolosisce il governo

Un emendamento alla manovra finanziaria chiede che il metallo prezioso «appartenga al popolo italiano» - La BCE fa sapere che un’eventuale decisione in tal senso violerebbe l’indipendenza degli istituti di emissione dell’eurosistema
Già in passato c’erano stati tentativi di «nazionalizzare» l’oro della banca centrale italiana. © Reuters/Alessandro Bianchi
Gian Luigi Trucco
06.12.2025 06:00

In ogni Paese le riserve aure costituiscono parte delle riserve ufficiali che sostengono la stabilità del sistema finanziario e della valuta. Negli ultimi anni gli acquisti, attuati in forma più o meno ufficiale, dagli istituti di molte nazioni, fra cui Cina, Russia, Turchia, Repubbliche centro-asiatiche e altri, hanno ampiamente contribuito, insieme alla diffusione di strumenti finanziari legati all’oro, all’incremento del prezzo di mercato del metallo giallo.

La Banca d’Italia è oggi un’importante detentrice di oro a livello mondiale, la quarta dopo la Federal Reserve di Washington, la Bundesbank tedesca e il Fondo monetario internazionale, anch’esso di Washington.

Il quantitativo posseduto è di 2.452 tonnellate, prevalentemente in lingotti e solo una piccola parte in monete. Tale volume è cresciuto dal 1893, anno di nascita della Banca d’Italia, fino alla Seconda guerra mondiale, alla fine della quale il poco rimasto venne sottratto (meglio sarebbe dire rubato) dai tedeschi e poi restituito. Nel dopoguerra crebbe sensibilmente e negli anni Novanta una parte fu trasferita alla Banca centrale europea (BCE) con l’avvio dell’Unione economica e monetaria.

L’oro è custodito nei caveau di Banca d’Italia a Roma (100 tonnellate) e presso altre banche centrali, a scopo di diversificazione dei rischi e per facilitare eventuali transazioni di mercato. Il rimanente è detenuto fra Regno Unito, Svizzera e la quota maggiore si trova negli Stati Uniti.

L’oro della Banca d’Italia è ora al centro di un confronto politico dalle implicazioni importanti e per certi versi preoccupanti. Un emendamento della manovra finanziaria che il Governo italiano si appresta a varare prevede di sottrarre l’oro dal controllo della Banca d’Italia portandolo sotto quello diretto del Governo. Le preoccupazioni nascono dal fatto che con questa mossa la risorsa perda il suo ruolo di garanzia finanziaria, divenga disponibile e possa essere utilizzata per finanziare politiche economiche di vario tipo, altrimenti prive di copertura.

Le conseguenze e i riflessi sui mercati finanziari potrebbero essere notevoli: verrebbe ovviamente meno il ruolo di «riserva» dell’oro, con rischi per la stessa stabilità finanziaria, la credibilità e la fiducia negli strumenti di finanziamento italiani, titoli pubblici e altri, fino a un possibile indebolimento dell’euro, in quanto una vendita eventuale delle riserve auree potrebbe essere percepita dal mercato come una scelta estrema dettata da condizioni finanziarie particolarmente gravi, prossime all’emergenza.

Giova ricordare che, sulla base dello Statuto del Sistema europeo della BCE l’oro della banche centrali dei Paesi partner è comunque soggetto alla supervisione di Francoforte, a salvaguardia della politica monetaria unica, e che la BCE può chiedere «further calls», conferimenti ulteriori, in ogni momento. L’emendamento proposto potrebbe quindi violare i trattati comunitari e minare l’architettura finanziaria dell’intera Eurozona.

La mossa, indicata da molti come «sovranista», inserita nella manovra 2026, definita ampollosamente un’iniziativa attuata «nel nome del popolo italiano», tesa a portare l’oro sotto il controllo diretto del Governo, non è una novità e da oltre 20 anni i lingotti di Via Nazionale (e non solo) fanno gola ai Governi, con iniziative diverse.

I precedenti

Nel 2004 il ministro dell’Economia del governo Berlusconi, Giulio Tremonti, propose l’introduzione di una «gold tax» sulle plusvalenze maturate sul metallo, norme che avrebbe colpito pesantemente anche le riserve auree di Banca d’Italia e lo stop venne dal suo governatore Antonio Fazio. Nel 2007 fu il Governo Prodi, con il ministro Padoa-Schioppa, a proporre la vendita di una parte delle riserve auree con l’obiettivo di ridurre il debito pubblico dell’Italia, e questa volta il no secco venne dai vertici della BCE.

La questione, oltre che aspetti finanziari, ha assunto anche toni giuridico-semantici a partire dal 2018, quando si è avviato il dibattito sull’appartenenza dell’oro della Banca d’Italia. Anche in questo caso lo stop giunse da Francoforte.

Comunque, il rally del metallo giallo pare essere di stimolo per la politica romana. Accanto all’iniziativa sull’acquisizione degli attivi della Banca d’Italia, sul tappeto vi è anche un’ennesima proposta di emersione, erede delle «voluntary disclosure» con cui la nostra piazza finanziaria si è confrontata a lungo e pesantemente: dopo i conti detenuti all’estero, il contante e le cassette di sicurezza, è ora la volta dell’oro e dei gioielli, il cui apprezzamento, grazie al provvedimento, godrebbe di una tassazione agevolata al momento della vendita. Sarà interessante se, una volta entrata in vigore, l’iniziativa porterà i risultati attesi.