«Riformulare la supply chain riducendo distanze e costi»

La tendenza a delocalizzare in nazioni più vicine si fa sempre più importante. Da Hugo Boss ad altre società europee, come Benetton e Ikea, le aziende guardano alla Turchia. I motivi sono molteplici,ma due sono quelli principali: ridurre le distanze, e conseguentemente i costi, nella catena di approvvigionamento e diminuire la dipendenza dal Sud Est asiatico. Per capire meglio il fenomeno, ci siamo rivolti a Valeria Giannotta, docente universitaria a Istanbul, Gaziantep, Ankara, ed esperta di dinamiche turche, Cavaliere di Italia e autrice del libro “Erdoğan e il suo partito” (Castelvecchi, 2018).
Hugo Boss sta aumentando la produzione a Izmir (Turchia) per avvicinarsi all’Europa, ridurre i costi della supply chain e cercare di alleggerire la dipendenza dal Sud Est asiatico. Ma anche altre aziende stanno facendo lo stesso . Se prima delocalizzavano in Estremo Oriente, ora guardano alla Turchia. Cosa si può dire di questo fenomeno?
«Negli ultimi decenni, le aziende si sono concentrate sull’Estremo Oriente per la loro fornitura globale, acquisendo risorse a basso costo e puntando alla crescita delle vendite, tutti obiettivi strategici che rientravano nelle logiche della globalizzazione. Con la crisi COVID-19, ne siamo testimoni diretti, sia aziende che governi hanno dovuto fare i conti con la gestione dell’emergenza, il che ha comportato massima attenzione verso i processi di continuità di approvvigionamento e sulla resilienza della catena di approvvigionamento, che in molti casi ha subito gravi interruzioni e disfunzionalità. Il tutto ha comportato una riconsiderazione delle dinamiche relative alla catena di approvvigionamento globale con una forte tendenza alla relocalizzazione regionale».
Alcune aziende stanno spostando la produzione, in modo tale che sia più prossima al cliente finale. Si può dire che pandemia abbia accelerato il processo o si trattava di un cambiamento già in itinere?
«Da tempo stavamo assistendo a una certa disillusione, anche politica, verso le logiche del mercato e della produzione globale. Alcune grandi aziende avevano già proposto e perseguito un approccio “regionale” in un’ottica globale, utile a massimizzare ulteriormente i profitti ed evitare in casi estremi una contrazione negativa del commercio estero».
La Turchia vuole trasformarsi in un hub ideale per la supply chain e attrarre investimenti di aziende estere? C’è una strategia?
«La Turchia è un Paese con un grande potenziale sia per l’attrazione di investimenti esteri sia come nuovo hub delle supply chain. I punti di forza sono molteplici: innanzitutto, è un Paese estremamente dinamico con infrastrutture all’avanguardia, basti pensare al nuovo aeroporto di Istanbul, e una rete di collegamenti logistici estremamente funzionante. Inoltre, la Turchia sta puntando molto su innovazione e tecnologia, facendo leva sulle competenze della sua popolazione giovane e qualificata. A questo si aggiunge anche il costo relativamente basso della produzione e della forza lavoro. Da ultimo, ma non per ordine di importanza, la collocazione geografica che permette facilmente l’ingresso in Paesi Terzi. Tutti elementi che rappresentano vantaggi competitivi nella riformulazione della Global Supply Chain».
Il fatto che la lira turca sia più debole porta un maggiore vantaggio per le imprese europee? Il crollo della lira turca implica magari anche rischi più elevati?
«Senza dubbio, il deprezzamento della lira rende più convenienti le acquisizioni e gli investimenti. Agli occhi delle imprese europee, dunque, la Turchia può apparire come una meta vicina e competitiva dove investire. In Turchia al deprezzamento valutario si accompagna, tuttavia, la crescita dell’economia, che negli ultimi quattro mesi del 2021 si sarebbe attestata al 7,4%, salendo al terzo posto dei Paesi più virtuosi secondo le stime OECD. Certamente, per contenere ogni tipo di rischio, è auspicabile una ripresa di politiche liberali che accrescerebbero il livello di fiducia verso il Paese.
L’accorciamento della catena di approvvigionamento implica costi di trasporto più bassi, anche se la manodopera nel Sud Est asiatico ha costi minori. La Turchia avrà dei vantaggi. A Izmir, solo nello stabilimento di Hugo Boss saranno impiegati altri mille lavoratori. Queste aziende aggiungeranno nuovi posti di lavoro.
«All’aumento dei posti di lavoro, aggiungerei anche incentivi allo sviluppo tecnologico e all’innovazione».
La posizione geografica è perfetta. Da sempre, la Turchia, è un ponte tra Occidente e Oriente.
«La posizione strategica della Turchia è unica sia per essere il cancello di ingresso verso i mercati orientali e africani per chi guarda dall’Europa, ma anche per entrare nel bacino europeo. Inoltre, il mercato interno è collegato ai mercati chiave non solo attraverso l’unione doganale o gli accordi di libero scambio, ma anche grazie alla logistica. La sola Turkish Airlines collega 323 destinazioni in 127 Paesi. Ci sono già esempi virtuosi di aziende multinazionali che utilizzano la Turchia come hub di produzione e gestione. Ad esempio, Toyota produce automobili in Turchia ed esporta l’85% della produzione in diversi mercati della Turchia. Ford esporta il 77% della sua produzione al di fuori della Turchia. L’azienda svizzera Nestlé utilizza la Turchia come base di produzione per MENA».
Hugo Boss investe su Izmir per aggirare l’emergenza
Altri lavoratori per la fabbrica turca di Hugo Boss a Izmir, in Turchia. La maison ha deciso di incrementare la delocalizzazione vicino a casa. I motivi? Contrastare la carenza di forniture, abbattere i costi di spedizione, ridurre la dipendenza dal Sud Est Asiatico. Le linee di fornitura hanno aumentato i costi e i tempi di spedizione, minando un modello di business in voga da tempo.
Le catene di approvvigionamento globali stanno subendo forti pressioni, i costi di trasporti marittimi sono sempre più alti. La delocalizzazione diventa più prossima, in controtendenza rispetto al mondo pre-coronavirus. La Turchia è più vicina del Sud Est asiatico. Le interruzioni nell’economia globale, sommate all’aumento della domanda post pandemia, hanno generato un cortocircuito. Ritardi e aumenti nei costi di spedizione costituiscono dei problemi. La fabbrica di Izmir risale al 1999 ed è il più grande sito produttivo di Hugo Boss. Oltre allo stabilimento di Smirne, le sedi aziendali sono dislocate in Germania, Polonia, Italia e Svizzera. Insieme alla Turchia, questi siti rappresentano già oltre il 20% del totale della produzione di abbigliamento. Ma gran parte della produzione proviene ancora dall’Asia.
«La nostra strategia futura è quella di produrre ancora più capi vicino ai mercati in cui verranno venduti», dicono da Hugo Boss. E se la bianca fabbrica di Izmir cresce, l’azienda tedesca non è la sola ad aver compiuto questa scelta. Anche Benetton ha aumentato la produzione in Turchia, Serbia, Croazia, Tunisia ed Egitto, con l’obiettivo di diminuire la produzione in Asia. Ikea e il rivenditore di moda polacco LPP stanno pianificando di spostare parte della produzione in Turchia. Ma anche Boehringer Ingelheim e DW Reusables (azienda belga) hanno annunciato nuovi investimenti in Turchia.