L'analisi

Tra oro e dollaro la correlazione è più debole

Tra gli investitori c’è una sorta di nostalgia per il defunto «gold standard» alimentata anche da eventi geopolitici, ma non solo - Il timore del ritorno dell’inflazione favorita dal protezionismo è uno dei fattori che spingono in alto il metallo giallo
Il famoso economista britannico John Maynard Keynes aveva definito l'oro una «barbara reliquia». © CdT/Gabriele Putzu
Gian Luigi Trucco
02.09.2025 23:59

Il mondo della finanza ha sempre guardato con attenzione al rapporto fra biglietto verde e metallo giallo, tradizionalmente dominato da un semplice principio di correlazione inversa: quando uno dei due valori saliva, l’altro scendeva. L’indebolimento del dollaro rende infatti più conveniente comprare oro, che svolge il ruolo di riserva di valore e protezione contro inflazione e svalutazione monetaria. In realtà, però, questa relazione si è dimostrata più volte piuttosto debole e in alcuni momenti si è perfino «rotta». Il quadro è più complesso di quanto la teoria descriva. Diverse analisi hanno evidenziato come la correlazione inversa non riguardi solo il dollaro USA, ma anche altre valute, rendendo l’oro non tanto una commodity con funzioni finanziarie, quanto una sorta di «valuta» esso stesso, come amava sottolineare - in modo provocatorio e suscitando accese reazioni tra i detrattori della «reliquia del passato» - l’ex presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan.

Nel periodo dei tassi storicamente bassi e dell’enorme crescita della massa monetaria, con il cosiddetto debasement del dollaro (ossia la perdita di riferimenti economici concreti), l’oro ha avviato un rally instancabile, non interrotto neppure dalla ripresa del dollaro, iniziata dall’autunno 2024 grazie all’avvio della politica restrittiva da parte della Fed. Così sia il biglietto verde sia l’oro sono saliti in parallelo, sebbene il secondo in modo decisamente più marcato, favorito dalle molteplici ragioni di incertezza che gravano sugli scenari: dalla geopolitica agli acquisti delle banche centrali, fino ai dubbi sull’efficacia delle sanzioni USA.

Attualmente l’oro, intorno ai 3.560 dollari l’oncia dopo un ultimo strappo al rialzo, segna +34% da inizio 2025, +42% su base annua e un raddoppio del prezzo negli ultimi tre anni. Se la «legge» della correlazione inversa si è almeno in parte indebolita, anche un altro dogma accademico risulta smentito: la cosiddetta «legge del prezzo unico», secondo la quale un aumento percentuale del dollaro comporta una corrispondente diminuzione del valore delle azioni USA, del petrolio e dell’oro, in quanto denominati in dollari. La realtà mostra dinamiche più complesse rispetto alle teorie formulate nelle aule universitarie: basti pensare all’influenza dei «premi di rischio» sui prezzi delle materie prime, a cominciare dal petrolio, o all’incidenza dei mutevoli costi logistici.

Avversione al rischio

A complicare ulteriormente il quadro contribuiscono oggi diversi fattori. Da un lato, gli eventi geopolitici spingono molti investitori sia verso l’oro sia verso il dollaro. Le attese di un taglio dei tassi da parte della Federal Reserve a settembre si combinano con le pressioni della Casa Bianca nei confronti del presidente Jerome Powell e di altri membri del Board, minando l’immagine e l’indipendenza dell’istituzione e alimentando il timore che essa possa «perdere il controllo» su inflazione e massa monetaria. C’è chi ha parlato, provocatoriamente, di «inglobamento» della Fed nell’orbita del Tesoro americano. Non da ultimo, serpeggiano timori che la politica fiscale e commerciale (dazi e tariffe) dell’amministrazione Trump possa generare effetti inflazionistici che, richiedendo interventi restrittivi, entrerebbero in contrasto con la visione dello stesso Trump, i cui obiettivi dichiarati restano tassi bassi e dollaro debole, visti come strumenti per contenere deficit, debito e relativo costo esorbitante per le casse federali.

Così, nell’era delle criptovalute e delle stablecoin - sempre più discusse - sono in molti a interrogarsi sulla possibilità, e sui vantaggi, di un nuovo «gold standard», un sistema monetario simile a quello che ha funzionato per 180 anni con bassa inflazione e crescita elevata, fino al 1971, quando il presidente Nixon pose fine alla convertibilità del dollaro in oro. Lo scetticismo è diffuso, le difficoltà tecniche reali, ma l’opinione di una parte del mondo finanziario sta cambiando. Negli ultimi anni molte banche centrali - a partire da quelle di Cina, India, Russia, diversi Paesi europei e dell’Asia centrale - hanno aumentato considerevolmente i loro acquisti di oro (oltre 1.000 tonnellate nel 2024, secondo il World Gold Council), spinte dai dubbi sul destino del dollaro nel lungo periodo.

Vi è poi il macigno del debito globale, che ha raggiunto i 300 mila miliardi di dollari (tre volte il PIL mondiale), nonché l’insofferenza dei protagonisti del Nuovo Ordine Mondiale riuniti nel vertice di Tienjin, un club di rilievo al quale potrebbero presto unirsi anche i Paesi del Golfo. L’India, protagonista dell’evento insieme a Cina e Russia, è stato il primo Paese a emettere un bond legato all’oro che, con una cedola annua del 4%, avrebbe superato - a partire dal 1971 - tutti gli indici azionari.

La guerra delle valute

Le prospettive per l’investimento in oro restano positive, come indicano sia le tendenze di acquisto di metallo fisico sia la crescita degli strumenti finanziari a esso legati, come gli ETF, destinata a proseguire con la discesa dei tassi e l’aumento delle incertezze politiche e geopolitiche. Verso gli ETF in oro si sono spostati molti capitali precedentemente investiti in fondi monetari e Treasury. Negli Stati Uniti si è affermata l’espressione disruptive path (letteralmente «sentiero sconvolgente») per descrivere quell’insieme di fattori politici, geopolitici, tariffari, economici, monetari e fiscali tali da minare la fiducia nel dollaro, persino nell’ipotesi di un ritorno a tassi più alti, Trump permettendo. Uno scenario che favorisce la continuazione della corsa dell’oro, cui potrebbero contribuire anche gli investitori cinesi, in caso di una probabile svalutazione dello yuan come risposta alla guerra tariffaria avviata da Washington.

Oro ai massimi

La prospettiva di un taglio dei tassi da parte della Federal Reserve spinge le quotazioni dei metalli preziosi. L’oro si è avvicinato alla soglia dei 3.500 dollari l’oncia, il massimo storico toccato nello scorso mese di aprile e ora scambia a 3.567 dollari (+1,4%). Argento a 41,42 dollari l’oncia con un balzo del 2,6%, portando il rialzo annuale a +40%