Un piano per mettere al riparo banche e clienti dalle crisi

Sale a tre, con la scomparsa di First Republic Bank, il numero di istituti bancari americani di una certa dimensione falliti dall’inizio dell’anno. I danni per il sistema nel suo complesso - fino a oggi - sono stati contenuti grazie all’intervento pubblico nei casi di Silicon Valley Bank e Signature Bank che ha salvaguardato i depositi.
Quello della First Republic rilevata da JPMorgan somiglia invece molto al caso Credit Suisse acquisita da UBS su spinta del Consiglio federale. Non sappiamo se ve ne saranno altre, sta di fatto che molte banche commerciali negli USA stanno soffrendo gli aumenti dei tassi di interesse decisi dalla Federal Reserve, che sembra avere difficoltà nel trovare il livello di tasso appropriato per riportare l’inflazione sotto controllo senza incrinare il sistema finanziario.
Intanto, i clienti fanno «shopping» (in gergo «bank walk») in cerca di banche più sicure dove depositare i propri averi. La fuga di capitali, o meglio la versione digitale della corsa agli sportelli (sposto i miei soldi con un clic), ha certamente peggiorato situazioni difficili preesistenti che questi istituti stavano attraversando. E se vi fosse un modo per attenuare questi (e altri) problemi di liquidità in un colpo solo?
Una riforma radicale
Per l’ex capo economista di Deutsche Bank Thomas Mayer esiste eccome: basterebbe riprendere il «Chicago Plan», il programma (mai attuato) di riforma monetaria e bancaria proposto negli Stati Uniti degli anni Trenta. In estrema sintesi, il piano consisteva nell’escludere le banche commerciali dall’attività di creazione di moneta grazie allo strumento della riserva frazionaria. Attualizzando l’idea ai nostri giorni, secondo Mayer, i depositi bancari potrebbero essere sostituiti dalle valute digitali delle banche centrali, le cosiddette «Central Bank Digital Currency». Valute, queste ultime, che hanno poco in comune con il Bitcoin e simili se non la tecnologia blockchain.
Un aspetto particolarmente interessante della proposta di Mayer è che le banche centrali non sarebbero più coinvolte nella determinazione dei tassi di interesse che, invece, scaturirebbero dalla domanda e dall’offerta di fondi prestabiliti. Dal mercato monetario, quindi. Le banche tradizionali, inoltre, continuerebbero a servire i propri clienti, effettuando transazioni (traffico dei pagamenti per esempio) e concedendo prestiti con i mezzi o con il denaro preso in prestito sui mercati dei capitali - e non usando i depositi dei clienti, sterilizzando quindi eventuali corse agli sportelli o altri eventi «contagiosi».
Una soluzione «digitale»
Il Chicago Plan, anche nella sua versione «digitale», appare la soluzione delle soluzioni alle sempre più frequenti (e grandi) crisi bancarie. Come mai, allora, non viene adottato dalle autorità politiche e monetarie?
Giriamo la domanda a Edoardo Beretta, professore titolare di macroeconomia all’USI: «Il piano di Chicago implicherebbe anche la perdita di ruoli storici: per le banche centrali la fissazione dei tassi d’interesse, per le banche commerciali la creazione di moneta da una scrittura contabile e per i Governi la gestione del debito pubblico per mezzo del finanziamento diretto in alcuni casi e indiretto per altri delle banche centrali. Pur mantenendo lo status quo, ritengo che si possa gradualmente agire sui due principali driver storici di crisi: l’eccessivo indebitamento (che è finanziato da prestiti) da parte di qualsiasi soggetto economico e l’emissione sistematica di moneta in eccesso rispetto alla ricchezza reale (presente o futura). Entrambi creano le premesse per speculazione e volatilità sui mercati, incertezze diffuse e corse agli sportelli. In combinazione con l’aumento dei tassi d’interesse tale equilibrio è ancora più precario».
I progetti Helvetia e Jura
Si chiamano «Helvetia» e «Jura» e sono i due progetti per l’utilizzo di un franco svizzero digitale sui quali da qualche tempo sta lavorando alacremente la Banca nazionale svizzera (BNS). Non parliamo di una specie di nuova criptovaluta «Swiss made», bensì di una CBDC disponibile «solo per le istituzioni del mercato finanziario regolamentato», ha precisato in una recente intervista del «Crypto Valley Journal» Thomas Moser, membro supplente della direzione generale della BNS, aggiungendo anche che «quest’anno pubblicheremo dei wCBDC su SDX per transazioni selezionate».
In altre parole, con il progetto Helvetia la BNS sta per sperimentare i CBDC «all’ingrosso» (wholesale) per regolare delle transazioni in titoli con moneta digitale, in collaborazione con la Banca dei regolamenti internazionali (BRI) e SDX, la piattaforma di SIX dedicata alla negoziazione di strumenti finanziari digitali. Dato il livello ritenuto «maturo» della tecnologia blockchain, il prossimo passo sarà, con il progetto Jura, l’estensione del franco digitale ai pagamenti transfrontalieri, in collaborazione con, tra gli altri, la Banque de France.
Secondo Moser, «una preoccupazione è che le CBDC possano competere con la moneta contabile delle banche commerciali e che queste ultime possano perdere i fondi dei clienti su larga scala, in modo permanente o in periodi di forte incertezza». In effetti, quanto più le CBDC assomiglieranno ai depositi a vista delle banche nella loro funzionalità, tanto maggiore sarà questo rischio.
Ma è davvero così? Ancora Beretta: «Il rischio di drenaggio di capitali esiste e le stesse banche commerciali hanno, storicamente, in tempi d’incertezza “parcheggiato” parte dei loro fondi presso le banche centrali considerate più sicure. Allo stesso tempo, un ruolo “commercialmente” più attivo delle banche centrali non deve sovraesporle in quanto potrebbe avere effetti sul loro “capitale reputazionale” accumulato nel tempo, proprio rimanendo “nell’ombra” ma agendo con decisione da “prestatrici di ultima istanza” in situazioni di gravi crisi. L’atto delle banche centrali con riferimento alle CBDC dovrà essere, ancora una volta, di grande equilibrio e ponderazione».