Emergenti

Vent’anni di «BRICS»: una storia a due velocità

Nel 2001 nasceva la definizione che raggruppa le economie di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica - A partire dal 2010 solo il Dragone ha fatto il grosso salto di qualità mentre gli altri Paesi non riescono a spiccare il volo
Enrico Marro
23.04.2021 19:43

I Brics soffiano sulle loro prime venti candeline tra luci (Cina), chiaroscuri (India) e ombre (Russia, Brasile e Sudafrica). È il 30 novembre 2001 quando il britannico Jim O’Neill, allora capoeconomista di Goldman Sachs, firma un Global Economic Paper destinato a entrare nella storia. Il titolo è tutto un programma: «Building Better Global Economic BRICs», gioco di parole tra l’acronimo appena coniato (Bric, ovvero le iniziali di Brasile, Russia, India e Cina, alle quali nel 2010 si aggiungerà la «s» del Sudafrica) e una traduzione letterale che suonerebbe come «Costruendo migliori mattoni dell’economia globale». Nella sua analisi il barone O’Neill, che diventerà anche Commercial Secretary al ministero del Tesoro nel Governo Cameron, riflette su come il probabile boom economico di quei Paesi emergenti potrebbe impattare su un sistema di governance mondiale allora dominato dall’asse Stati Uniti-Europa.

«All’epoca avevo delineato quattro diversi scenari su come l’economia globale sarebbe potuta diventare nel 2010 - ha scritto O’Neill di recente - tre dei quali ipotizzavano una crescita della fetta di PIL globale posseduta dai quattro big emergenti. Alla fine, per i Bric il decennio 2000-2010 si è rivelato migliore di ogni mia aspettativa. Peccato che fino alla crisi finanziaria del 2008 non si sia assistito ad alcun mutamento del sistema di governance globale», spiega l’economista britannico, che nota come anche dopo quegli anni sia cambiato poco, al di là dei summit del G20 e di qualche riforma di FMI e Banca mondiale.

La performance dei Brics nei primi vent’anni del terzo millennio è decisamente a due velocità. Da una parte abbiamo la straordinaria corsa della Cina, il cui PIL reale dal 2001 è cresciuto del 980%, seguita a grande distanza dall’India (+480%). Dall’altra il resto degli Emergenti, con il Sudafrica fanalino di coda (+190%). Il coronavirus ha ulteriormente accentuato il distacco tra la prima della classe e gli altri.

Effetto coronavirus

Stando all’ultimo World Economic Outlook del Fondo monetario, il Dragone è l’unico del gruppo ad avere chiuso il 2020 con un PIL positivo (+2,3%) e si prepara a un 2021 da incorniciare (+8,4%). L’anno scorso è invece stato disastroso per India (-8%) e Sudafrica (-7%), con la differenza che il Subcontinente sarebbe destinato quest’anno a un potente rimbalzo (+12,5%) mentre il PIL del Paese africano dovrebbe crescere appena del 3,1%. In difficoltà anche Brasile e Russia, non tanto per il calo del PIL 2020 (-4,1% e -3,1% rispettivamente) ma per un 2021 che non vedrà grandi acuti (+2,7% per Brasilia e +3,8% per Mosca). «Le quote di PIL globale di Brasile e Russia sono probabilmente tornate ai livelli del 2001 - commenta O’Neill - e l’India ha patito anni difficili, anche se sta emergendo come quinta economia mondiale».

Cina e India

Nel primo ventennio del XXI secolo l’unica a fare un vero salto di qualità è stata la Cina, che secondo l’ex analista di Goldman Sachs ha un’economia almeno 15 volte più grande di quella del 2001, con dimensioni triple rispetto a Germania e Giappone. Stando al FMI la quota di PIL globale del Dragone è balzata dal 7,7% del 2001 al 17,4% del 2019; Cina e India assieme sono invece passate dal 12% a quasi il 25%.

Pechino ha ancora alcuni nodi da sciogliere, dalla gestione del debito societario alla costruzione di un mercato internazionale dei capitali adeguato alla sua potenza economica. Ma ben più impegnative sono le sfide che deve affrontare il secondo «Brics» in classifica, l’India: dopo aver regolarmente battuto tutte le previsioni di Goldman Sachs nel primo decennio di questo secolo, toccando nel 2010 una spettacolare crescita del PIL del 10,3%, dal 2016 il Subcontinente ha iniziato a rallentare per poi sprofondare durante la pandemia. Con oltre 185mila vittime e 16 milioni di casi, il coronavirus ha colpito duramente un’economia che già faticava per la lentezza delle riforme e l’alto debito pubblico, oltre che per la fragilità del sistema bancario.

Brasile, Russia e Sudafrica

Ancora peggiore la situazione di Brasile e Russia. Con più di 14 milioni di casi e oltre 380mila vittime, il Paese sudamericano è stato colpito al cuore dal coronavirus in tutti i suoi punti deboli, dalla deludente crescita a un debito pubblico che è il più alto dei Brics. Mosca è invece alle prese con il suo storico problema di diversificazione economica, ancor oggi squilibrata sul volatile settore energetico, nodo al quale si sono aggiunti anni di sanzioni occidentali legate all’invasione della Crimea. Il risultato è che nell’ultimo quinquennio precedente la pandemia, il PIL russo è cresciuto in media di appena lo 0,7%. Con un rating creditizio che come per l’India si ritrova a un solo gradino dal livello «spazzatura», la Russia è anche l’unico Brics alle prese con un calo demografico. Ancora peggiore è la situazione del Sudafrica, che dopo un decennio di spesa pubblica enorme ma poco efficace si ritrovava già prima della COVID19 con una crescita asfittica e un debito in rapido aumento. Buona parte degli Emergenti esce insomma dalla pandemia in serie difficoltà. «Ma è ancora possibile che nell’arco di una generazione i Brics diventino economicamente importanti come l’attuale G7 - riflette O’Neill - in particolare se il commercio internazionale e gli investimenti continuassero a crescere». Un maggior peso economico dei Brics farebbe bene a tutto il mondo, conclude l’economista britannico, ma non sarà facile da ottenere, in particolare se le tensioni tra Washington, Pechino e Mosca dovessero restare ai livelli attuali.