Yamamay, nell’intimità di un’azienda

Nata nel 2001 Yamamay in poco tempo si è imposta sul mercato, con 665 punti vendita nel mondo (di cui circa 120 negozi con oltre mille dipendenti) e un fatturato da 245 milioni di euro (2018). Come?
«Siamo nati con l’idea di essere il player numero due italiano dietro al gruppo Intimissimi. Il target è simile, col vantaggio che un competitor forte ti stimola di continuo. Abbiamo sviluppato un discorso di glamour moderno che ‘osa’ e in parallelo il tema del benessere della donna. Mettere il benessere al centro significa fare una ricerca continua sui materiali e sulla tecnologia per creare capi più confortevoli e sostenibili. Ci vuole molta vicinanza psicologica per capire i bisogni delle donne, non a caso il nostro team di ricerca e sviluppo è quasi totalmente femminile».

Donne che «osano»: nell’era del #metoo c’è ancora voglia di utilizzare l’intimo per sedurre?
«Ce lo chiediamo tutti i giorni. Osare vuol dire lasciarsi andare a un momento di gioco all’interno della coppia, non trasgredire come arma di conquista. Oggi si osa più per piacersi che per piacere, e infatti questo concetto è legato a doppio filo col benessere. Poi l’Occidente vive una fase dove sembra che ciò che abbiamo costruito negli ultimi 200 anni si stia sgretolando. I momenti di evasione aiutano, anche a non cadere in ansie o depressioni. Per fortuna certe concezioni riduttive della donna oggetto sono cambiate nella società».
Come si trasmette il messaggio di un prodotto sensuale senza essere volgare?
«Provando e ogni tanto sbagliando. Bisogna essere molto ancorati ai valori dell’azienda, nel nostro caso il rispetto della donna e della sua natura. Ci aiutano tantissimo le reazioni sui social. Chiediamo anche il parere degli uomini: non si perdono in pensieri laterali, se decidono di acquistare acquistano, e facilmente danno un’opinione schietta».

A proposito di uomini, tra gli obiettivi per i prossimi cinque anni c’è aumentare il fatturato dell’intimo maschile al 15%. Usi e costumi che cambiano?
«Oggi siamo attorno al 10-11%. Non direi, semplicemente per l’uomo c’è più attenzione a tutto ciò che è estetica e benessere. Tant’è che lo stesso trend di crescita lo si nota per i prodotti di bellezza. La linea donna al contrario è stabile da anni».
E come si cresce in un mercato stabile?
«Attraverso le aperture di negozi in nuovi Paesi e la conversione di molti punti vendita in superfici più grandi. Senza dimenticare che la crescita passa anche dall’online. Poi a livello di estetica c’è la sfida della moda in continua evoluzione, e di definire ancora meglio il nostro target di mercato. Nel retail si raccolgono tante informazioni dal mercato, ma dovremo imparare a sfruttarle meglio con tecnologia e analisi dei dati».
Però nel retail i canali online danno filo da torcere ai negozi. Una strategia controcorrente?
«L’intimo è particolare perchè va provato, non è come comprare una t-shirt sul web. In negozio si fa almeno il primo acquisto, quindi una rete capillare di punti vendita aiuta a crescere. D’altra parte il lavoro rigoroso che abbiamo fatto sulle taglie può aiutarci ad accelerare le vendite online (oggi il 2%). Noi diciamo di avere una strategia ‘figital’ (fisico più online), ma in realtà nel retail ciò che è difficile è acquisire l’ottica ‘multichannel’, cioè riuscire a progettare un prodotto sostenibile per ogni canale».
È sostenibile far produrre i prodotti principalmente nel far East?
«Per ora sì, ad esempio produrre in Cina o il Vietnam in certi casi conviene ancora perchè li c’è il migliore approvvigionamento di alcune componenti. Non avendo nostri impianti produttivi facciamo controlli rigorosi sulla supply chain. È difficile misurare la sostenibilità di tutto il processo produttivo, anche se sappiamo che il mercato prima o poi ce lo chiederà...la cosa più efficiente è produrre di meno e fare una migliore distribuzione per evitare sprechi».
A che punto è la crescita in Svizzera?
«Per ora il mercato risponde molto bene al brand. Siamo presenti da 10 anni con 21 punti vendita, di cui 20 presso Manor e un negozio a Grancia. Vorremmo sviluppare il monomarca, partendo proprio dal Ticino che ha il grosso vantaggio di essere vicino a Gallarate (la sede principale, ndr). La visione è arrivare in centro città; penso che il progetto sia rallentato più che altro per una questione di costi e di location».
A Lugano le location non mancano, sono diversi i negozi vuoti.
«Si, ma con gli affitti ancora troppo alti. Lugano probabilmente sarà oggetto di una riconfigurazione urbanistica nei prossimi anni. Partendo dal centro, che ora è come se fosse un po’ disgregato. Poi a parte i costi, forse tanti negozi sono vuoti perché hanno bisogno di un cambio di mentalità degno di una città internazionale: a volte sembrano usciti dagli anni ‘50. Lo vediamo molto bene negli altri Paesi, nel retail bisogna sperimentare nuove formule, pensare allo story telling, all’esperienza del cliente, magari con un negozio multi-concept. Ma per me è solo questione di tempo, l’internazionalità porterà per forza una spinta al cambiamento».
Laureata, mamma e imprenditrice, tutto prima dei 25. Molte donne devono aspettare di più prima di far combaciare le cose, c’è un segreto?
«No, sono stata una privilegiata fortunata perché ho sempre lavorato in famiglia. Però guardando le mie figlie, alle giovani donne, se possono, consiglio di non aspettare la cosiddetta età critica per fondare la famiglia, anche a costo di sacrifici iniziali. Dopo si avrà la difficoltà di gestire figli piccoli e un picco di carriera, che è più faticoso ancora».