«Entravo in Svizzera nascosta nel cofano dell’auto»

La legge e i contingenti
Nel 1934 la Svizzera introduce lo statuto di stagionale: le imprese possono ingaggiare manodopera straniera per una stagione. Durante il soggiorno, agli stagionali è proibito cambiare lavoro, domicilio e farsi raggiungere dalle famiglie. Nel 1949 la durata massima di una stagione lavorativa è di 9 mesi. Nel 1963 il Consiglio federale introduce una quota massima di stagionali per cantone. Nel 1965 l’Italia riesce ad ottenere, per i propri lavoratori, la trasformazione del permesso stagionale in annuale dopo 5 stagioni in Svizzera. Solo affrancandosi dalla condizione di stagionale, e a ben precise condizioni (alloggio conveniente, cura dei figli assicurata), i migranti ottengono il diritto al ricongiungimento.
Quanti bambini nascosti?
Gli esperti ritenevano che all’inizio degli anni Novanta nel nostro Paese ci fossero all’incirca 10-15 mila bambini nascosti. Per Marina Frigerio erano parecchi di più: «Secondo l’Ufficio federale degli stranieri, nel 1990 vivevano nella Confederazione 121.704 lavoratori stagionali, di cui 69.404 coniugati. Ipotizzando una media di due figli a famiglia, si arrivava dunque a calcolare che circa 140.000 bambini vivevano una situazione di separazione traumatica oppure crescevano nella solitudine della clandestinità».
Bisogna attendere il 2002, e l’entrata in vigore dell’accordo sulla libera circolazione delle persone tra la Svizzera e l’UE, per vedere abolito il permesso di stagionale.
Tra film, romanzi e saggi
La difficile condizione degli stagionali, la triste sorte dei bambini clandestini e degli «orfani di frontiera» sono temi che ritornano, oltre che in numerosi documentari e film, anche nell’ultimo libro di Nicoletta Bortolotti – luganese di nascita e milanese d’adozione – intitolato «Chiamami sottovoce» (Harper Collins Edizioni) e di due saggi più datati della psicologa Marina Frigerio: «Versteckte Kinder, Saisonierkinder und ihre Eltern erzählen» (Rexverlag, 1991) e «Bambini proibiti» (Casa editrice Il Margine, 2012). «Quand’ero clandestina – si legge su quest’ultimo – avevo 12 anni e, ripensandoci, avevo molta paura perché anche i miei genitori ne avevano. Ripetevano sempre a bassa voce: “Zitta! Non ti far sentire!”. Loro andavano e venivano dal lavoro e io dovevo sempre stare sola. (...) «Per 3 anni abbiamo fatto questa vita: permesso da turista, ritorno in Italia e rientro in Svizzera nel cofano, mesi nascosta in casa. Abitavamo in una stanza con cucina. (...) Non osavo muovermi, passavo le giornate sdraiata sul letto a leggere e guardare per aria con la speranza che il tempo passasse in fretta. Dalla paura che avevo non usavo nemmeno le stoviglie per mangiare, per non fare rumore».