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«Entravo in Svizzera nel cofano dell’auto e sono cresciuta sola rinchiusa in una soffitta»

Ecco alcuni estratti delle lettere pubblicate in un servizio della «Domenica del Corriere», ex settimanale del «Corriere della sera», pubblicato sull’edizione del 23 marzo 1971
Italiani in Svizzera
Romina Borla
12.02.2019 18:30

Nel contesto di un approfondimento sugli «orfani di frontiera» (vedi suggeriti) ecco alcuni estratti delle lettere pubblicate in un servizio della «Domenica del Corriere», ex settimanale del «Corriere della sera», pubblicato sull’edizione del 23 marzo 1971.

«Vivo in una baracca»
Zurigo, 1 dicembre 1970. «Sono uno dei centomila stagionali italiani che lavorano in Svizzera. Sono disperato perché non riesco, benché da molto tempo io sia occupato in una fabbrica a Winterthur, a farmi raggiungere dalla mia famiglia, moglie e due bambini, che ho lasciato al paese, Favara (Agrigento). (...) Vivo in una baracca, con altri italiani. Due mesi all’anno, come vuole la legge, devo lasciare la Svizzera. Torno a casa e ogni volta mi viene voglia di mollare tutto (...). Ma come vivrebbero, allora, mia moglie e i miei figli?» (da «Lettere di condannati all’emigrazione» sulla «Domenica del Corriere» del 23 marzo 1971).

Nel cofano dell’auto
Di seguito riportiamo alcune delle testimonianze raccolte da Marina Frigerio nel suo «Bambini proibiti»: «Quand’ero clandestina avevo 12 anni e, ripensandoci, avevo molta paura perché anche i miei genitori ne avevano. Ripetevano sempre a bassa voce: “Zitta! Non ti far sentire!”. Loro andavano e venivano dal lavoro e io dovevo sempre stare sola. (...) «Per tre anni abbiamo fatto questa vita: permesso da turista, ritorno in Italia e rientro in Svizzera nel cofano, mesi nascosta in casa. Abitavamo in una stanza con cucina. (...) Non osavo muovermi e passavo le giornate sdraiata sul letto a leggere e guardare per aria con la speranza che il tempo passasse in fretta. Dalla paura che avevo, non usavo nemmeno le stoviglie per mangiare, per non fare rumore».

I «negri» dell’epoca
Renato, nato nel 1943 in un paese vicino a Brescia, è entrato illegalmente in Svizzera per raggiungere il padre che lavorava nel canton Soletta: «In Svizzera la vita era molto dura. Abbiamo patito tanto freddo. (...) Noi ragazzi non potevamo andare a scuola, perché eravamo clandestini. (...) Ci sentivamo come in prigione, senza sapere bene il perché. (...) non sprecavamo niente ma continuavamo ad essere poverissimi. Pensate che la paga la si prendeva ogni due settimane (...). Ogni quindici giorni, regolarmente, mia mamma ci spediva di mattina in fabbrica: papà ci aspettava dietro al cancello e ci allungava tra le sbarre i soldi per fare la spesa. Se no, non avremmo potuto mettere in tavola niente a mezzogiorno. (...) Mi ricordo che noi italiani eravamo additati, e non solo all’epoca di Schwarzenbach! (...) Noi eravamo gli intrusi, i negri dell’epoca».

Neomamma in partenza
«Mio padre è venuto in Svizzera perché giù non c’erano i soldi», ma l’uomo non era contento e si sentiva solo. «La mia mamma allora disse: “No, no. Non è possibile. Come diamo da mangiare a quattro figli?”. Allora lei, che mi aveva appena partorito e allattava ancora, mi lasciò dalla nonna e partì per la Svizzera a cercare mio padre. Era il dicembre 1960 e io sono nata nel novembre di quell’anno».

La storia si ripete
«Negli anni Novanta, scrive Frigerio, la comunità italiana aveva già raggiunto un buon livello di integrazione in Svizzera. (...) I problemi che incontravano spagnoli, kosovari, portoghesi erano gli stessi con cui avevano dovuto confrontarsi gli italiani nei decenni precedenti. La difficoltà di farsi raggiungere dai propri famigliari era un problema enorme per tutti questi lavoratori».

La legge e i contingenti
Nel 1934 la Svizzera introduce lo statuto di stagionale: le imprese possono ingaggiare manodopera straniera per una stagione. Durante il soggiorno, agli stagionali è proibito cambiare lavoro, domicilio e farsi raggiungere dalle famiglie. Nel 1949 la durata massima di una stagione lavorativa è di 9 mesi. Nel 1963 il Consiglio federale introduce una quota massima di stagionali per cantone. Nel 1965 l’Italia riesce ad ottenere, per i propri lavoratori, la trasformazione del permesso stagionale in annuale dopo 5 stagioni di lavoro in Svizzera. Solo affrancandosi dalla condizione di stagionale, e a ben precise condizioni (alloggio conveniente, sufficienti mezzi finanziari, cura dei figli assicurata), i lavoratori immigrati ottengono il diritto al ricongiungimento.

Contro l’inforestierimento
Sempre nel 1965 viene lanciata a Zurigo la prima iniziativa popolare «contro l’inforestierimento», che viene ritirata nel 1968. La seconda arriva nel 1970, promossa da James Schwarzenbach, parlamentare del partito di estrema destra Azione nazionale. L’iniziativa vuole limitare il numero di stranieri al 10% della popolazione. Una misura che avrebbe implicato l’espulsione di 300 mila persone dal Paese. Il testo è respinto dal 54% dell’elettorato, ma sono ben otto i cantoni che dicono sì.

Avanti con l’istruzione
Nel 1967 – si legge su «Bambini proibiti» di Marina Frigerio – il numero degli stagionali era pari a 153.510, di cui 83,3% italiani. Nel 1977 erano 67.280 (37% italiani) e 114.640 nel 1987. Dalla fine degli anni ’80 le organizzazioni per i diritti dell’infanzia si impegnano per l’abolizione dello statuto di stagionale e per far prevalere nella legislazione svizzera che regola l’immigrazione il diritto all’istruzione e a vivere con la propria famiglia. Bisogna attendere il 2002, e l’entrata in vigore dell’accordo sulla libera circolazione delle persone tra la Svizzera e l’UE, per vedere abolito il permesso di stagionale.