Fa sempre più caldo e il gallo abbassa la cresta

Gli animali stanno già mutando le loro caratteristiche morfologiche per adattarsi al riscaldamento climatico. È il segnale d’apprensione lanciato da Sara Ryding, ricercatrice PhD della Deakin University in Australia. Il cambiamento, che sta interessando alcune specie, non è da considerarsi propriamente un buon segno. Secondo quanto la scienziata ha dichiarato al Guardian «la mutazione non significa che gli animali stanno facendo fronte al cambiamento climatico e che va tutto bene. Sta semplicemente a significare che stanno evolvendo per riuscire a sopravvivere – ma non siamo sicuri di quali siano le altre conseguenze di questi cambiamenti per l’ecosistema, o che tutte le specie siano in grado di adattarsi e sopravvivere». Un monito che ci deve far riflettere. Lo studio («Shape-shifting: changing animal morphologies as a response to climatic warming», Sara Ryding et al.), pubblicato a inizio settembre, illustra i risultati delle ricerche condotte osservando le mutazioni delle appendici in alcune specie di animali a sangue caldo, in particolare uccelli e piccoli mammiferi. Gli animali endotermi devono poter dissipare il calore corporeo, dato che il surriscaldamento può essere molto pericoloso, anche letale. Per questo sono muniti di un sistema che permette loro di controllare costantemente la temperatura tramite zone naturalmente designate: quelle che non sono ricoperte da piume o pelliccia e che quindi non hanno isolamento termico. Sono le appendici che permettono all’animale uno scambio con l’esterno, formando un sistema automatico di termoregolazione e dissipazione del calore. Si tratta, ad esempio, dei becchi degli uccelli, delle code o delle orecchie dei roditori, delle ali dei pipistrelli. E sono proprio queste le zone nelle quali si è osservato l’aumento della superficie. Ryding ha rilevato che queste mutazioni sono associate e correlate positivamente all’aumento costante delle temperature. Nel paper la ricercatrice suggerisce come la temperatura possa essere un forte indicatore, se non addirittura un fattore di predicibilità dei cambiamenti morfologici. Un argomento molto interessante e sicuramente attuale. Per questo abbiamo chiesto un parere sulla questione a Thomas Flatt, professore di biologia evoluzionista e presidente del Dipartimento di biologia dell’Università di Friburgo.
Prima di partire è però utile illustrare due leggi fondamentali della biologia evoluzionista: la regola di Allen e la regola di Bergmann, citate ampiamente anche nello studio di Ryding. Entrambe si usano per interpretare le differenze di taglia in esemplari della stessa specie a seconda del clima in cui vivono. La regola di Allen riguarda proprio le appendici: stabilisce che gli animali che abitano nei climi più caldi, alle latitudini tropicali, presentano appendici con superficie più grande rispetto ad animali della stessa specie che vivono nei climi freschi e temperati. La regola di Bergmann si riferisce alle dimensioni corporee: più la temperatura è elevata, più le dimensioni degli esemplari saranno ridotte e viceversa. Questa teoria si basa sul rapporto tra superficie e volume che consente di trattenere più a lungo il calore corporeo o, al contrario, permetterne una più rapida dissipazione.


Normale evoluzione o fenomeno allarmante?
La domanda sorge spontanea. Queste mutazioni, riscontrate ultimamente da Ryding, fanno parte del normale e millenario processo evolutivo, oppure si tratta di un segnale d’allarme? Secondo Flatt ci troviamo di fronte a una sorta di mix tra le due possibilità. Sicuramente l’evoluzione sta seguendo la sua strada, come ha sempre fatto. Anche secondo quanto stabilisce la regola di Allen. Può essere dunque abbastanza normale trovarsi di fronte a fenomeni come quelli riportati da Ryding: casi di esemplari che, vivendo in climi caldi, sviluppano maggiormente le appendici che permettono loro di smaltire calore corporeo. Un fenomeno comune in fin dei conti. Ma naturalmente, specifica Flatt, sappiamo che l’operato dell’uomo sta dando una grossa accelerazione al surriscaldamento globale, causando un aumento generale delle temperature. Questo è un fenomeno la cui pericolosità è nota da tempo ed effettivamente può portare a delle ripercussioni, rendendo il clima di una certa zona più caldo e, di conseguenza, spingendo gli animali che vi abitano a mutare. «Le due regole sono molto importanti e potrebbero già in parte spiegare il fenomeno dello Shape-shifting» ribadisce Flatt. Sono infatti conosciute dagli scienziati già da tanto tempo (dall’Ottocento, rispettivamente 1877 e 1847) e sono già state ampiamente utilizzate per spiegare l’evoluzione morfologica delle specie: «I biologi evoluzionisti hanno notato e ben documentato questi pattern da tempo. Sono cose che vediamo davvero spesso, quindi si può pensare che questi siano dei fenomeni normali». In effetti, prosegue, questi pattern sono stati stabiliti tanto tempo evolutivo fa, quindi anche prima che i cambiamenti climatici operati dall’uomo si manifestassero: «Sarebbe sbagliato pensare che questi fenomeni, descritti dalla regola di Allen, siano qualcosa di eccezionale». Gli animali continuano a adattarsi ai cambiamenti climatici come hanno sempre fatto. Ma l’attenzione va portata su fatto che, per quanto il processo sia naturale, questo è stato ampiamente esacerbato dagli stravolgimenti prodotti dall’uomo. Che sono diventati sempre più importanti e frequenti nel corso degli ultimi anni. Naturalmente, specifica Flatt, gli animali che presentano le caratteristiche più vantaggiose alla sopravvivenza, saranno favoriti nella selezione e questo si chiama «adattamento genetico». Ma non è sempre sicuro che il processo di mutazione sia dovuto all’adattamento genetico, questo viene anche evidenziato nell’articolo. Ci possono essere mutazioni dovute a «plasticità fenotipica», continua Flatt: «Immaginiamo una popolazione di organismi geneticamente identici, clonati. Questi, se fatti crescere in ambienti diversi, svilupperanno caratteristiche morfologiche e fenotipiche diverse, a seconda del luogo in cui vivono. E le mutazioni non saranno dovute ai geni».


L’impatto sull’ecosistema e le altre specie
Ma un’alterazione delle caratteristiche fisiche, seppur dettata dall’evoluzione, potrebbe portare a stravolgere il fragile equilibrio dell’ecosistema? In effetti sì. «Se si muta la taglia, potrebbero cambiare anche altre cose, potrebbero esserci ripercussioni sulla durata della vita di un organismo, sulla sua fertilità o sulle sue stesse possibilità di sopravvivenza». E così via, moltissime cose sarebbero toccate e questo rischierebbe di alterare anche le relazioni tra le diverse specie. «Potrebbe in effetti darsi che alcune specie diventino migliori competitor rispetto ad altre, nel caso in cui il cambiamento morfologico influenzasse il loro modo di predare». Insomma, ci potrebbero essere delle ripercussioni su tutto l’ecosistema. Così come anche i fenomeni di migrazione: «Se un animale non riesce a adattarsi, sceglierà, laddove possibile, di migrare. E anche questa è una risposta. In fondo gli animali cercheranno sempre il modo per adattarsi ai cambiamenti climatici, evitando di soccombere, almeno finché ne hanno i mezzi». Ci domandiamo se ci saranno altre specie coinvolte in questa corsa evoluzionistica per sfuggire o adattarsi al global warming. Anche questa ipotesi è plausibile: «Nel paper si parla soprattutto di uccelli e mammiferi, perché questi sono animali sui quali è più facile investigare. Ma sarebbe molto interessante osservare più a fondo altre specie per vedere se le regole di Allen e Bergmann si applicano. È importante stabilire se il pattern esiste e vedere dove cambia nel corso degli anni». Ma per fare questo serve un’osservazione su larga scala e tanto tempo. Flatt e il suo team stanno già collaborando, con altri laboratori europei, ad un’ampia ricerca sulle drosofile (comunemente note come moscerini della frutta) per vedere se anche negli insetti si manifestino mutazioni dovute ai differenti tipi di clima, in questo caso secondo la regola di Bergmann. «Stiamo lavorando su esemplari da tutta Europa, li cataloghiamo in modo da poter sequenziare ogni tipo di moscerino perché vogliamo vedere come il genoma cambi ogni volta in un ambiente naturale. E vediamo differenze di taglia interessanti a seconda dei posti – più caldi o più freddi – da cui provengono gli esemplari».
Una nuova velocità evolutiva?
Il fatto che siamo già in grado di osservare e calcolare queste mutazioni, può significare che ci troviamo di fronte a un’accelerazione della velocità evolutiva? Effettivamente, ci spiega il professore, la velocità con la quale si muove l’evoluzione può essere misurata: «Si possono osservare su un lasso di tempo quali cambiamenti fenotipici stanno avvenendo all’interno di una stessa popolazione». Quindi si può quantificare quanto veloce è l’evoluzione. Sarebbe interessante, prosegue, vedere se i cambiamenti climatici dovuti all’attività umana hanno impresso un’accelerazione alla velocità evolutiva. «Abbiamo le traiettorie misurabili del cambiamento climatico e stiamo vedendo un’accelerazione e una maggiore forza in questi fenomeni. Sarebbe molto interessante verificare la correlazione: ovvero, se le mutazioni legate alla regola di Allen stiano subendo la stessa accelerazione». Sembra facile a dirsi, ma è molto complicato da realizzarsi. La difficoltà principale risiede nel fattore tempo: ne serve moltissimo per poter vedere il processo evolutivo. Un esempio, ci spiega Flatt, sono i fringuelli di Darwin – o fringuelli delle Galápagos – sui quali viene condotta una ricerca su larga scala che prosegue da una quarantina d’anni alla più bassa delle latitudini: l’Equatore. Una zona particolare, influenzata periodicamente dall’oscillazione a turno di due grossi fenomeni climatici opposti. El Niño, che comporta un’ondata calda e secca, con il conseguente aumento delle temperature oceaniche, e La Niña, che al contrario porta correnti fredde e umide. Un terreno fertile per studiare come le mutazioni morfologiche evolutive dipendano dalle variazioni climatiche, ma che non è facile trovare ovunque.