Francesca Rigotti, elogio dell’oscurità

L’ultimo libro di Francesca Rigotti, filosofa, docente all’USI e recente vincitrice del premio della fondazione del Centenario della BSI, sta nel palmo di una mano. Si intitola Buio (ed. il Mulino) e di fatto è un elogio spassionato dell’oscurità. Ne abbiamo parlato con l’autrice.
La premessa del suo libro fa riferimento al pensiero prescientifico secondo il quale luce e buio non sono contrapposti.


«Luce e buio non sono né contrapposti, né antagonisti. Sono complementari, naturali, armoniosamente legati allo scorrere del tempo. Basta pensare al buio come alla notte, fermo restando che il buio non è soltanto notte. In realtà, il buio può essere quello di una caverna, o quello dell’interno del nostro corpo. Non ci si pensa mai. Lo immaginiamo rosso per via del sangue, ma no: è buissimo, nerissimo, scurissimo. Poi c’è il buio di tante altre situazioni, come in una cella».
In generale, però, si vive il buio come antagonista della luce.
«Sì, ed è un’idea derivata dai greci. Perché la Grecia era il Paese della luce sia reale che metaforica. Ed è stato il luogo in cui il pensiero si è auto descritto come luce. Da subito è stata indicata la corrispondenza tra luce e verità e questo ha penalizzato il povero buio, finito, diciamo così, nel cestino della carta straccia. Tutto il negativo è stato messo lì, non a caso si parla di oscurantismo, e il buio è stato associato alla paura, alla cecità in tutti i sensi, all’ignoranza».

Nel libro lei cita il mito della Genesi che tratta meglio il buio.
«È vero. Il mito ha una tenebra iniziale da cui poi nascono la luce e la notte, di nuovo. C’è una tenebra creatrice che poi ritorna, per esempio, in passi della mistica cristiana. Mi riferisco in particolare a Giovanni della Croce, che io chiamo il Giovanni del Buio, di contro al Giovanni della Luce, che è l’evangelista, per il quale lo splendore del logos si spreca. In Giovanni della Croce c’è invece un’oscurità luminosa. Pensiamo anche alle tenebre delle ‘notti sante’ che appartengono a tante culture e religioni. Di notte c’è l’avvento numinoso e in un certo senso luminoso, che può essere la nascita del profeta, di dio stesso, della rivelazione, della resurrezione...»
Nel libro emerge un rovesciamento paradossale: la troppa luce, lei dice, abbaglia. Come mai?
«Io sono ecologista. Personalmente sono molto infastidita dall’inquinamento luminoso e ne soffro fisicamente. Mi sono detta: è possibile che non sia preso abbastanza sul serio perché il buio ha questa connotazione simbolica e metaforica negativa. Allora ho provato a raddrizzare questa percezione sul piano simbolico e metaforico per aiutare le persone a rendersi conto che molte di loro stanno consumando un vero e proprio ‘buicidio’. E che tutta questa luce artificiale fa ammalare le persone. Vedere il cielo stellato fa parte dei diritti dell’umanità. Questa cosa ci danneggerà sempre di più perché ci impedirà di cogliere le cose che esistono nella penombra. I nostri occhi sono talmente abituati alla luce che in penombra non colgono più nulla. Sarà per la mia natura felina, ma io accendo la luce solo all’ultimo».


Il piano fisico e quello simbolico si intrecciano, quindi.
«Sì, e mi ferisce anche tutta la retorica che dice che ‘ogni cosa è illuminata’. Un libro che non ho amato a partire dal titolo».
Senza contare quello che Bobbio – da lei citato - definiva l’accecamento di fede.
«Norberto Bobbio diceva che troppa fede accieca e rende fanatici. Questa era la sua posizione, dichiarandosi non uomo di fede. Su questa falsariga temo questo momento storico in cui tutti parlano dell’uscita dal tunnel. E io temo che si trasformi in un’apoteosi di luce».
Si riferisce all’uscita dal tunnel della pandemia?
«Esatto. Vorrei anch’io un’uscita rapida e indolore dalla pandemia, ma non vorrei che fosse un’uscita esagerata nella luce, nel senso fisico e metaforico dell’espressione, un’accensione generalizzata di luci, fari, proiettori. Dove luce è sinonimo di sicurezza. Riappacifichiamoci anche con le parti tenebrose che abbiamo sperimentato e che fanno parte della vita. Perché la vita non significa essere collegati sette giorni su sette, 24 ore su 24. Il ritmo sonno-veglia, luce e buio, è salutare. Ma noto, per esempio, che in questo periodo storico la gente si sveglia molto più tardi. Vanno benissimo i gufi, ma io resto un’allodola».
Goya diceva che il sonno della ragione genera mostri... Il sonno, nel suo libro, è definito un’oscurità benvenuta. Chi ha ragione?
«I nemici del buio sono un esercito invincibile. Si parla sempre del trionfo della ragione, dell’illuminazione, della razionalità, di tutto quello che è legato alla luce. All’illuminismo viene opposto l’oscurantismo. L’avversario è potentissimo. Nel mio disperato tentativo di difesa del buio metto in evidenza il fatto che il buio appartiene alla complementarietà e all’alternanza. Senza contare la questione del gender».
Cioè?
«In un testo degli anni Cinquanta, Gérard Genette osserva che nelle lingue europee, quando parliamo di ‘giorno’, intendiamo sia la parte della giornata con la luce, sia tutta la giornata. Quando parliamo di ‘notte’, parliamo soltanto della notte. E buttà lì un’associazione: quasi quasi è come quando parliamo dell’uomo che comprende uomo e donna, mentre se diciamo donna, intendiamo dire solo donna. C’è quindi un’associazione, uomo-giorno, donna-notte, nella quale non c’è complementarietà, ma dominio del giorno sulla notte e dell’uomo sulla donna. Le notti, come le donne, non hanno storia perché non sono consecutive come i giorni».
Quali insegnamenti escono dal buio?
«Dando alla luce il campo della ragione, al buio attribuisco il campo dell’immaginazione. Uno chiude gli occhi per concentrarsi, o per provare maggior piacere, per esempio in un rapporto amoroso. Per andare al centro di se stesso e riuscire a pensare meglio che non in una luce fortissima e solare. Questo è il sapere del buio. È il sapere dell’indovino cieco, il sapere di Tiresia, tornando al pensiero greco. C’è l’idea che chi perde la luce esterna ne acquista una interna e può vedere addirittura il futuro».
L’arte è figlia del buio?
«Sì. Penso all’arte figurativa, ma soprattutto alla musica. Tutto nasce nel buio della notte, nel buio del ventre e poi esce alla luce. Anche il pensiero è figlio del buio, è uno dei tanti bambini della notte».


Ma il buio fa paura.
«Si tratta di un comportamento, normale, naturale, ancestrale, perché nel buio non vedi i contorni delle cose. Ovviamente nel buio si può nascondere l’assassino, l’ignoto, la trappola, le strade... nel buio persiste un pericolo reale. Ma non per questo si deve demonizzarlo. Il mio, del resto, non è un attacco alla luce. Una luce ragionevole mi va benissimo, sono felice di girare un interruttore e vedere che si accende la lampadina. Ma da questo a illuminare ogni cosa in nome della bellezza, della ricchezza e della sicurezza ce ne corre».
E poi c’è il buio del razzismo, con parole oggi bandite, come «negro»...
«Il buio coincide oltre che con la notte, col nero. Da quando l’ha detto Newton, il nero non è un colore, ma poco importa. L’associazione del buio col colore nero fa sì che, probabilmente, le persone con pelle più chiara abbiano paura di quelle con la pelle più scura. Ma come si insegna ai bambini per il buio, lo stesso vale per il colore della pelle».
L’ultimo capitolo si intitola «buio è, ed è bello». Perché?
«Mi preme quasi di più del bello, l’espressione “buio è”. Dal punto di vista filosofico “duro” ho voluto sottolineare una presenza ontologica, una essenza del buio, perché il buio non diventi la “non luce”. Altrimenti dovrei chiamare la luce “non buio”. Il buio è qualcosa. I greci hanno qualcosa da dirci in merito. Basta leggere l’Iliade. Quando i guerrieri morivano calava un’ombra nera sui loro occhi, una nuvola nera si stendeva sulla persona. Il buio appare come una cosa consistente, una presenza, una nebbia nera che toglie la luce. Anche se il contesto è negativo, qui il buio è qualcosa. La mia è un’esortazione raffinata per rivendicare l’essenza del buio. Il buio non è il nulla, se lo si considera così io dico che bisogna stare attenti: si sta violando qualcosa che c’è».