Fukushima? Incidente di percorso

Tranquilli: la Tecnica risolverà tutti i nostri problemi
Oliver Broggini
30.03.2011 10:00

È destino che la trama prometeica dell'avventura nucleare debba vivere alcuni dei suoi snodi cruciali nella terra dei ciliegi in fiore. Giapponesi sono le due città che vennero scelte per mostrare al mondo la potenza delle armi atomiche; giapponese era il peschereccio – beffardamente chiamato Drago fortunato 5 – che si trovava nel tratto sbagliato di oceano Pacifico il 1. marzo 1954, giorno in cui l'esperimento Castle Bravo andò terribilmente storto; e, come stiamo scoprendo in tempo reale, giapponese è l'impianto nucleare civile che sta ponendo gravi dubbi su questo sistema di produzione dell'energia. Chissà se anche i sopravvissuti alla radioattività di Fukushima verranno chiamati con quella parola, inventata nel 1945 a Hiroshima e Nagasaki: hibakucha. Chissà se, come dopo l'incidente delle isole Marshall, qualche artista si inventerà una nuova versione di Godzilla.

La lezione che ci sta venendo impartita e che presto scorderemo, in queste drammatiche ore, riguarda numerosi concetti che – a furia di essere ripetuti e diluiti, come in una soluzione omeopatica – sono diventati solo la pallida ombra del loro significato originario: rischio, responsabilità, sicurezza, progresso. I processi incontrollabili e imprevedibili che prendono forma nel nucleo del reattore sono il ritorno brutale di tutto quello che abbiamo rimosso, mentre credevamo di correre a velocità crescente verso il Paradiso in Terra. E stavolta l'Apocalisse non viene dall'esausta burocrazia dell'Ucraina sovietica, ma dal Paese che in pochi decenni ha saputo disegnare il balzo dal medioevo al vertice della tecnologia e dell'efficienza.

Viene da ridere, mentre gli abitanti di Tokyo sono sottoposti a una radiografia che dura per l'intera giornata, se pensiamo alle promesse che tuttora riguardano le scorie nucleari, e l'individuazione di un luogo dove ammassarle in maniera sicura. Un luogo che non esiste – da nessuna parte nel Mondo – a più di mezzo secolo dalla costruzione delle prime centrali; un luogo che, con tutta probabilità, non esisterà mai. A Würenlingen, nel Canton Argovia, i bidoni di rifiuti radioattivi giacciono ammonticchiati e fiduciosi in un'ordinata catasta – con senso dell'umorismo molto federale è detta Zwischenlager, senza sapere cosa ci sia all'altro capo dello zwischen.

E allora ci accodiamo alle Sinistre e ai Verdi, denunciamo il colpevole silenzio politico dei «poteri forti» e abbracciamo la ridicola pretesa di vedere «spente subito» tutte le 441 centrali nucleari del mondo? Temo che la risposta debba essere negativa, e non (solo) per comodità o sindrome dello struzzo. La verità è che – nella situazione in cui ci troviamo – un abbandono rapido e ordinato del modello di vita industriale non è praticabile; le due alternative che possiamo scegliere sono il caos energetico, in nome di una presunta maggiore sicurezza, oppure un impegno lento e graduale ma deciso per ridurre il nostro tenore di vita, venendo a patti con la consapevolezza che il grado zero del rischio è un'illusione.

L'unica cosa che non andrebbe fatta – e che, invece, è precisamente quanto avverrà – sarebbe fare finta che sull'altra faccia del Pianeta stia andando in scena solo un incidente di percorso, e rimetterci comodi a sonnecchiare, pensando che tutto potrà continuare così, come oggi e meglio di oggi, all'infinito: sempre più consumi, sempre più strade per sempre più macchine, sempre più posti alla tavola del progresso, imbandita da uno sviluppo tecnologico che risolverà tutti i problemi, compresi quelli che lui stesso ha creato.