L’intervista

Gabriele Balbi: «Così i guru del digitale ci prescrivono il futuro che vorrebbero»

I venerati visionari delle varie Silicon Valley annunciano con largo anticipo le innovazioni che arriveranno, a partire da Bill Gates - A volte sbagliano ma le loro previsioni hanno un peso politico ed economico enorme
Un modello di mano robot presentato a una delle ultime edizioni della fiera tecnologioca di Hannover.
Carlo Silini
30.05.2020 06:00

Nelle grandi fiere annuali high tech i protagonisti della digitalizzazione lanciano le loro predizioni per il futuro, come Bill Gates nel 1995 – Non sempre gli scenari previsti si avverano, ma spesso hanno un peso politico ed economico enorme che determina veramente gli anni a venire, come ci spiega l’esperto dell’USI Gabriele Balbi. In pieno tempo di pandemia, il prestigioso trimestrale accademico che copre i campi della comunicazione e dei media Convergence ha pubblicato un saggio firmato dal professore dell’USI Gabriele Balbi assieme al collega dell’Università di Augsburg Christian Schwarzenegger dal titolo curioso e intrigante: When the ‘Messiah’ went to ‘Mecca’: Envisioning and reporting the digital future at the CeBIT tech fair (1986–2018), e cioè: Quando il ‘Messia’ è andato alla ‘Mecca’: Immaginare e raccontare il futuro digitale alla fiera CeBIT tech (1986-2018). Il tema trattato sembra molto teorico: il futuro visto nel passato. Ma i risvolti della riflessione hanno implicazioni pratiche enormi. Siamo sicuri, per esempio, che i venerati visionari delle varie Silicon Valley oggi in un qualche modo non stiano manipolando il nostro futuro? Ne parliamo con Gabriele Balbi (nella foto CdT sotto).

Professore, nell’analisi curata col suo collega Schwarzenegger scrivete che ci sono alcuni luoghi chiave in cui il futuro delle tecnologie digitali è sempre stato immaginato. A quali luoghi vi riferite?
«Ci siamo concentrati soprattutto sulle fiere tecnologiche e in particolare sulla fiera annuale CeBIT tech che si è tenuta ogni anno ad Hannover, in Germania, dal 1986 a 2018. È stata probabilmente la fiera più simbolica per l’Europa».

Perché?
«Anzitutto perché al CeBIT sono state presentate alcune delle tecnologie che poi hanno determinato il nostro presente digitale: dal computer, al CD Rom ai laptop, al telefono mobile. Una seconda ragione è che da lì sono passati i guru della digitalizzazione: Steve Jobs, Elon Musk e Bill Gates fra tutti. In terzo luogo, menzionerei le compagnie, le corporation che sono state lì: Sony, IBM, Nokia, Apple, aziende che ci dicono molto dei passati decenni sul fronte della digitalizzazione. Nel 2018, per dire, il discorso più rilevante è stato affidato a Huawei, che ha inevitabilmente portato la sua visione asiatica del futuro. E poi, appunto, è sempre stato un luogo per capire che cosa sarebbe successo dopo».

Voi partite dallo storico discorso di Bill Gates, CEO di Microsoft, nel 1995.
«Bisogna ricordare che quel discorso è avvenuto in un anno chiave per la digitalizzazione. Sono stati scritti libri importanti, ad esempio da Negroponte e dallo stesso Bill Gates. John Perry Barlow parla di internet e l’anno dopo a Davos di indipendenza del ciberspazio. In quell’anno succedono anche altre cose, per esempio esce Toy Story, il primo cartone animato interamente girato in digitale. E il più guru dei guru, Bill Gates, si presenta alla fiera, una fiera a cui partecipa circa un milione di visitatori».

La sede della fiera di Hannover.
La sede della fiera di Hannover.

E cosa fa?
«Presenta uno speech intitolato ‘sulla punta delle dita’. Il tema è: come comunicheremo fra dieci anni (e quindi nel 2005). Tra le sue predizioni c’era quella che oggi definiremmo come domotica, la casa digitalizzata. Diceva che non avremmo più avuto un portafoglio fisico, ma nel PC, previsione meno azzeccata. Si concentrava molto sulla televisione interattiva che nel 1995 sembrava il vero futuro. Ma più che valutare se avesse torto o ragione, è interessante vedere in che modo i giornali dell’epoca avevano riportato il suo discorso».

Cioè?
«Abbiamo visto che i media hanno utilizzato termini religiosi. Si parlava di guru del software, si diceva anche che il miliardario del software non poteva sbagliarsi. L’idea sottintesa è che non poteva sbagliare perché aveva fatto i soldi prima. Da lì abbiamo preso il titolo del nostro studio: il Messia che va alla Mecca. La Mecca dove si guarda al futuro è il CeBIT e il Messia è Gates che spiega cosa attende l’umanità nei prossimi anni. Faccio notare che c’è anche una tempistica religiosa: le fiere sono grandissime celebrazioni che avvengono una volta l’anno, come il Natale, spesso sempre nello stesso periodo. Uno dei problemi del coronavirus è stato spostare la data di alcuni eventi simili. Hanno preferito annullarle che sovrapporle alle date di altri eventi. Aggiungo la dimensione di attesa, un’aspettativa che fa accorrere gli entusiasti, i cosiddetti ‘fedeli’ della tecnologia. Qui giocano un ruolo anche i giornalisti tecnologici che creano un’aura di attesa fortissima e in un certo senso sono gli evangelisti di questo messaggio».

I leader delle grandi aziende digitali hanno <br />indicato gli orizzonti del progresso, a volte sbagliando

D’accordo, ma perché avete deciso di studiare le predizioni del passato?
«Perché hanno un valore contemporaneo. In parte perché permettono di ricostruire quali fossero le opzioni del passato. Che poi si siano realizzate o no, è un modo nuovo di vedere il passato, di capire come il passato immaginava il futuro. Ma soprattutto ci parlano del presente dei mezzi di comunicazione».

In che modo?
«Le previsioni del 1995 non sono nient’altro che l’orizzonte di aspettative di quell’anno. Esattamente lo stesso vale per le predizioni di oggi, non solo digitali. Predizioni che non possono che essere basate sulla situazione del 2020. È difficile immaginare cose troppo distanti dalla nostra realtà. Le macchine volanti sono una tipica predizione della fine dell’Ottocento che immaginava qualcosa che già esisteva – la macchina – a cui si aggiungeva qualcosa che ancora non c’era, il fatto di poter volare. Poi c’è una terza ragione per questo tipo di studio: la performatività del futuro».

Bill Gates alla fiera tecnologica CeBIT di Hannover nel 1995.
Bill Gates alla fiera tecnologica CeBIT di Hannover nel 1995.

Ovvero?
«In nome del futuro noi facciamo delle scelte che hanno un grande peso economico e politico. Se dico che fra dieci anni tutti i Paesi dovranno avere la banda larga, avvio una macchina che prevede investimenti politici, aziende – come Apple, e altre – che si narrano come necessarie. Altre persone, in questa prospettiva, giustificano di più i propri acquisti: è giusto che faccia la fila agli Apple store, per dire, perché so che fra dieci anni sarà quello il futuro».

È questa la perfomatività?
«Esatto: le modalità di vedere il futuro oggi influenzano gli investimenti nei prossimi anni o addirittura decenni. Non dico che in questo modo il futuro si autorealizzi, ma di sicuro c’è una spinta perché il futuro com’è stato immaginato venga anche realizzato. Perché ci ho messo soldi, tempo ed energie».

Le predizioni di queste fiere sono quindi meno innocenti di quanto sembrano.
«Esatto».

Tuttavia, non sempre le previsioni si avverano e ci sono esempi clamorosi di tutto questo.
«È vero, ci sono varie previsioni che concorrono. E ci sono vari futuri immaginati e non possono realizzarsi tutti. Ci sono quindi visioni concorrenti che si scontrano anche per le risorse economiche necessarie per realizzarle. Alla fine, vince la visione più convincente».

Le loro indicazioni non sono innocenti: hanno implicazioni<br />sia economiche che politiche

Cosa avete capito sui futuri che non si sono realizzati?
«Non sempre le opzioni che anno vinto erano le più forti, ma forse sono state vendute meglio, veicolate da istituzioni più forti, come le grandi corporation. Va anche detto che a volte le visioni sconfitte si realizzano solo più tardi. È il caso dell’Intelligenza artificiale, una disciplina che vive delle estati e degli inverni dagli anni Cinquanta ad oggi. Oggi gode di grande fortuna, anzi ce l’abbiamo in parte già in casa. Ma non fu così negli anni Sessanta e Settanta...»

Quali sono state le grandi previsioni sbagliate?
«La storia della tecnologia ne è piena. Cito un paio di esempi. Il primo risale agli anni Ottanta quando la più grande azienda mondiale di telefoni, AT&T Inc., decide di vendere la sua sussidiaria che faceva telefonia mobile dicendo che la telefonia mobile non aveva futuro. Fu un grande errore dal punto di vista industriale. Se poi ci trasportiamo all’inizio degli anni Novanta, quasi nessuno parlava di internet che di lì a quattro-cinque anni sarebbe esplosa con il web. Questo per dire che è difficile prevedere il futuro. Anche grandi aziende super equipaggiate non ci riescono».

Come mai?
«Perché ci sono dei paradigmi di ragionamento - nel caso dell’AT&T Inc. il telefono fisso - che non ti permettono di vedere alternative. Allo stesso modo la Kodak fece una grandissima fatica a fare la transizione alla logica digitale fino a fallire, perché non riusciva a vedere un futuro diverso dall’analogico. Molto spesso i grandi fallimenti sono dettati dall’every day businness delle aziende che non riescono a cambiare la propria cultura e mentalità».

Anche in tempo di pandemia le corporation si narrano come salvifiche

Per concludere: quanto possiamo fidarci delle predizioni digitali che arriveranno?
«Non so se la parola fiducia sia quella giusta. In un qualche modo ci si chiede di avere fede nelle previsioni. Però, facendo analisi critica, come deve fare l’università, direi che non c’è molto da fidarsi. I futuri immaginati, molto spesso, a dieci anni di distanza sono molto diversi. Magari più lenti, o più strani: basta pensare a Elon Musk che lancia una macchina in orbita su un missile. A me pare che le grandi Corporation si vogliano auto narrare. E lo si è visto anche durante la pandemia».

Cioè?
«Apple ha cominciato a produrre le mascherine. Ti dice, in pratica: non solo ti accompagno, ma ti salvo la vita. Bill Gates sta veicolando più di tutti la necessità di impiegare denaro per trovare un vaccino. Il coronavirus ha dimostrato ancora una volta che queste grandi aziende si vogliono narrare come quelle che hanno un potere salvifico. In questo vedo un futuro molto simile al presente. All’orizzonte non vedo delle corporation concorrenti che possano costituire un’alternativa alle narrazioni di Google, Apple, Amazon, Facebook, Microsoft e altri. Non a caso nelle prime dieci aziende per capitalizzazione mondiale nel 2019, le prime cinque sono corporation digitali, più delle aziende di petrolio o di quelle siderurgiche. Sono monopoli non solo economici, ma anche di pensiero, culturali».

Come si possono avere delle visioni alternative a quelle mainstream, allora?
«È esattamente questa la sfida dei prossimi decenni».

I grandi dubbi sui mass media

Anche i mass media sono stati e continuano ad essere confrontati a scenari futuri pieni di incognite. In che modo si immaginava la rivoluzione mediatica nel passato? E come possiamo immaginarla domani? Secondo Gabriele Balbi «a partire dagli anni Settanta, come tutte le rivoluzioni che si rispettino, quella digitale è apparsa irresistibile. Inutile tentare di opporre un freno. In alcuni casi ha funzionato molto bene, per esempio per la televisione. In altri, come la radio, meno».

Gli inizi scriteriati

I giornali tradizionali, dal canto loro, appartengono a «quel settore che in un qualche modo si è interrogato di più sul proprio destino. Inizialmente in maniera scriteriata rovesciando tutti i contenuti, negli anni Novanta, sul web a disposizione dei lettori. In questo modo non individuavano un modello di business. Oggi, col paywall, siamo disposti a pagare l’informazione di qualità, anche se bisogna contrastare due decenni di tutto gratis. Quando c’è un’abitudine che viene acquisita da un fruitore medio, è difficile scardinarla. Senza ombra di dubbio la digitalizzazione ha poi favorito l’espansione dell’informazione di alcuni mezzi di comunicazione. Le piattaforme di Google, Facebook e altre hanno inglobato alcuni mezzi di comunicazione precedenti».

La newsroom del Corriere del Ticino. Foto CdT
La newsroom del Corriere del Ticino. Foto CdT

Il peccato originale

I social, tuttavia, hanno un peccato originale imperdonabile: si appropriano di contenuti informativi che non sono loro. «Vero», commenta il nostro interlocutore, «sono prodotti che i giornalisti hanno impiegato tempo per farli e sono stati pagati per questo. Ma ora finiscono su piattaforme dove nessuno paga. È una questione ancora aperta al dibattito, ma a dire la verità non è che si sia trovato un grande modello».

La buona notizia, per Balbi, è che aziende di comunicazione predigitali hanno qualcosa che quelle nuove non hanno: la credibilità. «Si sono difese per questo, specialmente in un momento di notizie false che circolano costantemente. La grande narrativa dei media classici è: vai a informarti nei luoghi tradizionali dell’informazione. Anche le tv stanno cominciando ad usare questa narrativa dicendo: credi alle televisioni stabili, al servizio pubblico... Un meccanismo di difesa importante».

Il servizio pubblico

Qualcuno potrebbe però chiedersi perché pagare il servizio pubblico quando potrebbe avere accesso all’informazione a livello così ampio. «Se lo chiedono, sì. Ma le ragioni ci sono e personalmente mi sono sempre schierato a difesa del servizio pubblico, specialmente in un Paese come la Svizzera, dove in effetti non è crollato. Questi sono i dibattiti. Come ne usciranno i giornali è una previsione difficile. Rispetto a dieci anni fa le perdite per i giornali sono del 10, 20 o 30 per cento. Ma è anche vero che dieci anni fa non erano state fatte previsioni così pessimistiche. Si diceva solo che il mercato dei giornali si sarebbe ristretto a livello di lettori. Oggi è difficile immaginare come andrà a finire, ma devo anche dire che è difficile immaginare la nostra società senza i grandi giornali. Senza la funzione dei media come ‘cani da guardia del potere’. In sostanza direi che non possiamo immaginare il futuro senza il giornalismo e senza i giornali tradizionali, fermo restando che il giornalismo non si fa solo coi giornali tradizionali».