L'intervista

«Giovani e nuove tecnologie, un'opportunità: ma solo se l'uso è consapevole»

Sergio Belardinelli, già ordinario di Sociologia dei processi culturali all’Università di Bologna, sabato mattina sarà ospite all'USI di Lugano di un convegno
© CdT/Gabriele Putzu
Paolo Galli
24.10.2025 06:00

Sabato sarà a Lugano, e il suo intervento al convegno organizzato dall’associazione Essere a scuola girerà attorno al tema seguente: « L’inclusione, tra consapevolezza di sé e apertura all’altro». Lo abbiamo raggiunto per approfondire il suo pensiero critico sull’argomento, attualizzandolo anche in relazione alle nuove tecnologie, sempre più presenti e controverse.

In una sua riflessione per Il Foglio, lei scriveva: «Anziché coltivare la gratuità di un processo che di per sé non serve a nulla, abbiamo preferito finalizzare l’educazione alle esigenze della società». Partirei da qui.
«Premesso che è del tutto normale che i sistemi educativi siano finalizzati in qualche modo alle esigenze della società, ciò che voglio dire è che il fine dell’educazione di per sé non si riduce a questo. La società ha bisogno di ragionieri, tornitori, insegnanti ed è giusto che esistano scuole che rispondono a questa esigenza, ma guai a perdere di vista il fatto che l’educazione è anche, e direi soprattutto, un processo di formazione della persona, un modo di aiutare i bambini e gli adolescenti a trovare se stessi, a sentirsi a casa nel mondo che abitano, mentre imparano a leggere, a fare i conti, a studiare la storia e la geografia. Tanto più la scuola viene in chiaro su questo punto, tanto più il resto le sarà dato in sovrappiù».

Esiste una tensione evidente, oggi, tra inclusione e merito, tra attenzione al singolo e obiettivi standardizzati. Come si può tenere insieme questa doppia esigenza senza sacrificare nessuno dei due poli?
«È soprattutto una questione di equilibrio e di evitare atteggiamenti ideologici preconcetti. Per quanto, a rigore, nessuno possa dire di aver meritato veramente i talenti che ha ricevuto, è tuttavia doveroso premiare in qualche modo coloro che si impegnano per metterli a frutto. Non si tratta di stabilire a priori come e perché ci si dovrebbe impegnare in tal senso, ma di disporre semplicemente le condizioni affinché ognuno possa farlo secondo le proprie inclinazioni, secondo i talenti che ha. Mi rendo conto che il problema è molto difficile, credo però che questa sia l’unica strada per affermare un’idea di merito che sia “inclusiva”. Quanto agli obiettivi, un conto è perseguirli secondo un metodo standard uguale per tutti, altro conto è fare in modo che ognuno li raggiunga secondo la strada che sente più congeniale. Specialmente nella scuola primaria, tutto questo non dovrebbe essere impossibile».

Lei parla della scuola come del luogo in cui «aiutare i nuovi venuti a sentirsi a casa nel mondo». Che rapporto c’è oggi, secondo lei, tra educazione e costruzione dell’identità personale e sociale dei giovani individui?
«È uno dei problemi più urgenti della scuola e dell’intera società. Se fino a ieri sembrava quasi scontato che una generazione dovesse farsi carico dell’educazione e della socializzazione dei “nuovi venuti”, secondo quanto ereditato dai padri, oggi, chi più chi meno, tutti constatiamo la dissoluzione di questa sorta di automatismo. Navighiamo a vista, con non pochi vantaggi in termini di libertà, visto che non siamo più imprigionati agli automatismi del passato. Ma questo non può significare che dobbiamo abbracciare la “neutralità” etica come unica strada per trovare noi stessi e sentirci appunto a casa nel mondo che abitiamo. I giovani, si dice, vanno lasciati liberi di scegliere i propri valori e i propri stili di vita, ma, a parte che lo faranno comunque, dimentichiamo che il come lo faranno dipenderà in gran parte proprio da quanto abbiamo loro insegnato. Quanto alla parola socializzazione abbiamo preferito addirittura l’“autosocializzazione”: una vera contraddizione in termini, della quale facciamo finta di non accorgerci, ma che di fatto sta alla base di gran parte del disagio che affligge le giovani generazioni e non solo».

Ho la sensazione che il clima culturale nel quale siamo immersi non faciliti la responsabilità dell’insegnante, ma la inibisca, sganciando le cosiddette discipline di studio dal contesto culturale e valoriale all’interno del quale esse acquistano un senso

In che modo la relazione tra insegnante e studente è cambiata nel corso del tempo?
«La relazione insegnante/allievo è una relazione asimmetrica. Il che vuol dire che entrambi sono rispettivamente soggetto e oggetto di responsabilità, ma non lo sono in maniera simmetrica: la responsabilità che ha l’insegnante nei confronti dell’allievo non è la stessa che ha l’allievo nei confronti dell’insegnante. Ho la sensazione che il clima culturale nel quale siamo immersi non faciliti la responsabilità dell’insegnante, ma la inibisca, sganciando le cosiddette discipline di studio dal contesto culturale e valoriale all’interno del quale esse acquistano un senso. Come ebbe a dire Christopher Lasch, qualsiasi tentativo di avvicinare qualcuno a un orizzonte di valori rischia oggi di venire considerato come “un attentato alla sua libertà di scelta”. Ma il risultato è un generale spaesamento che colpisce tutti».

Che spazio c’è oggi per la libertà del pensiero, dell’espressione, della crescita personale?
«L’educazione è una pratica rischiosa, una pratica che richiede competenza, pazienza, senso di responsabilità, sacrificio, in una parola, amore. Per questo essa non potrà mai essere un progetto meramente tecnico, un progetto da realizzare attraverso protocolli standardizzati. Un’automobile può essere costruita tecnicamente, ma una persona no. Se pensiamo a persone libere, allora dobbiamo aiutarle a diventare tali, assumendocene i rischi e la responsabilità. Sì, intendo dire che anche la libertà si impara, ma non esistono ricette per insegnarla. Esiste soltanto la responsabilità di coloro che la ritengono un valore meritevole di essere insegnato e testimoniato. Lo stesso si può dire del pensiero critico. Lasciati a noi stessi possiamo soltanto rimanere vittime dei nostri capricci, in attesa di essere sottomessi a questo o a quel padrone, ma non diventeremo mai persone autonome e libere».

Quanto pesa, secondo lei, il rischio che l’idea di inclusione venga strumentalizzata o ridotta a una logica di etichette invece che vissuta come una relazione educativa profonda?
«Proprio perché l’inclusione è una “relazione educativa profonda”, non credo che esistano ricette per realizzarla. Ci vuole invece un profondo rispetto nei confronti dei bambini e degli adolescenti che abbiamo di fronte e una profonda consapevolezza della “unicità”, diciamo pure, della “diversità”, che li contraddistingue. Spesso quest’ultima può essere molto marcata e, in questi casi, bisogna essere realisti, non certo far finta ideologicamente che tutti siano uguali o, altrettanto ideologicamente, considerare alcune diversità come non includibili per principio. Si tratta in ultimo di cogliere e valorizzare la ricchezza che viene dalla pluralità, ben sapendo che, per farlo, non servono chiacchiere pedagogiche, bensì lavoro, fatica e passione educativa».

Quale ruolo hanno invece, in termini di vera inclusione, le nuove tecnologie?
«È un tema complesso e assai controverso. Per quanto mi riguarda tendo a pensare che le nuove tecnologie siano una grande opportunità anche educativa, ma possono esserlo soltanto a condizione che il loro uso sia consapevole. Il che vuol dire che lo escluderei nelle scuole elementari e medie. Qui coltiverei piuttosto l’intelligenza e il linguaggio naturali prima di passare a smartphone e IA. Oltretutto ci sono ormai ricerche in abbondanza che documentano preoccupanti disturbi neurologici, di apprendimento e relazionali indotti da un uso troppo precoce degli strumenti digitali. Quanto all’uso di ChatGPT, tanto per fare un altro esempio, una ricerca recente del Mit di Boston ha mostrato come esso inibisca le capacità linguistiche di chi lo usa. Pare insomma che siano coloro che hanno maggiore dimestichezza con il linguaggio naturale a sfruttarne a pieno le potenzialità positive. Un modo di dire che a chi ha sarà dato e a chi non ha sarà tolto anche quello che ha. Di nuovo, dunque, la centralità dell’educazione. Bisogna fare in modo che i giovani lo capiscano, che capiscano la bellezza delle parole, come pure della libertà e dell’autonomia che esse sanno generare. In ogni caso, ovunque si volga lo sguardo, mi sembra che sia sempre più evidente come il vero elemento che oggi fa la differenza sia l’educazione che abbiamo ricevuto».

Sergio Belardinelli, già professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi nel Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Bologna, è attualmente professore Alma Mater dello stesso ateneo. Interverrà domani, sabato, mattina alle 10, all’auditorium USI a Lugano, nel convegno «Si fa presto a dire inclusione», organizzato dall’associazione "Essere a scuola". Il tema della sua relazione sarà: «L’inclusione: tra consapevolezza di sé e apertura all’altro». I lavori si apriranno alle 9, introdotti dal presidente dell’associazione Virginio Petroni, e vedranno tra i protagonisti anche il professore Roland Reichenbach e la professoressa Rita Casale. Lo spunto da cui parte la riflessione è il seguente: «Il valore dell’educazione come fonte imprescindibile di emancipazione, in grado di sconfiggere forme storiche di emarginazione e di esclusione, è senza dubbio uno dei grandi progetti della modernità. Ma la cosiddetta "égalité des chances", con le sue auspicate ricadute nella società, appare oggi un progetto perlomeno incompiuto, se non addirittura tradito. Negli ultimi decenni si è infatti assistito a un aumento delle diseguaglianze di reddito, ricchezza e opportunità: a forme di declassamento ed esclusione che cominciano a minacciare anche la classe media».


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