L’intervista

Giovanni Merlini: «Dalla delusione alla prova d’orgoglio»

Il candidato PLR al Consiglio degli Stati parla a ruota libera della sua situazione dopo il poco brillante risultato del 20 ottobre - IL VIDEO
Giovanni Merlini, candidato PLR al Consiglio degli Stati. ©CdT/Gabriele Putzu
Gianni Righinetti
06.11.2019 06:00

Con Giovanni Merlini diamo il via alle interviste con i candidati al Consiglio degli Stati. Il candidato del PLR, terzo al primo turno, chiama a raccolta liberali radicali e popolari democratici in vista del giorno della verità, domenica 17 novembre.

Terzo classificato al primo turno. È stata una doccia gelata?
«C’è stata una certa sorpresa e anche delusione per la difficoltà nella mobilitazione che abbiamo riscontrato all’interno del PLR. Le analisi che abbiamo fatto sono diverse, ma è innegabile che c’è una componente legata alla congiunzione tecnica con il PPD e i Verdi liberali per il Consiglio nazionale. Diversi liberali radicali non l’hanno digerita, ma ha contribuito anche la bassa partecipazione che subiamo sempre alle federali. Tutto questo mi ha penalizzato. Ora si tratta di guardare avanti e recuperare il potenziale che c’è nel partito. Poi, tutto quello che riusciremo a convogliare verso la mia persona dall’esterno è di guadagnato».

Quando ha deciso di lasciare la «certezza» della rielezione al Nazionale per affrontare con coraggio questa avventura immaginava una strada tanto in salita?
«Avevo ammonito fin dall’inizio il Comitato cantonale del partito che sarebbe stata una battaglia durissima perché la concorrenza era forte. La scelta di correre unicamente per gli Stati era dettata da due ragioni: 1) Trasparenza e rispetto nei confronti dell’elettorato che ha il diritto di sapere che cosa vogliono il sottoscritto e il partito: difendere appunto il seggio agli Stati. Non ho voluto lasciare spazio ad alcuna speculazione. 2) C’era poi la necessità di creare una sufficiente mobilitazione. Liberando il mio seggio al Nazionale avrei creato maggiori aspettative e una maggiore competizione interna per la conquista di quel seggio. Purtroppo abbiamo visto che l’attesa mobilitazione non c’è stata come sperato».

Lei lo ha detto: «Mi sono messo in gioco ma la base del PLR non si è mobilitata». E come spiega che il suo partito, storicamente presente al Consiglio degli Stati, oggi corra il rischio di subire l’assalto da destra e da sinistra?
«C’è stata forse un po’ di sottovalutazione dei rischi quando si è deciso di optare per questa congiunzione. Sottovalutazione della reazione di quell’elettorato più tradizionale che fa fatica ad accettare una collaborazione più organica con il PPD. Ma forse troppi liberali radicali e popolari democratici hanno dato per scontato un mio buon risultato».

Agli Stati contano le personalità, i profili moderati e i compromessi intelligenti

Avete chiamato a raccolta le sentinelle liberali radicali sul territorio. Com’è andata?
«È stato un incontro con sindaci, municipali e responsabili delle sezioni convocato di domenica mattina, tanti hanno risposto presente. Erano un centinaio e non è poco. È un buon segno, la scossa del primo turno c’è stata e ha risvegliato l’attenzione di molti inducendoli a mobilitarsi e a non dare più nulla per scontato. La consapevolezza c’è, come pure la voglia di riscatto e ora deve farsi sentire l’orgoglio liberale radicale. Siamo a un bivio».

Queste sentinelle come spiegano la «disaffezione» mostrata il 20 ottobre?
«Un po’ con la classica sensazione di lontananza di Berna dal Ticino, ma dobbiamo renderci conto che le decisioni che contano vengono prese nella Capitale e non a Bellinzona. Molti partecipanti hanno confermato la resistenza trovata in ampie fasce del partito sulla congiunzione. Ma ora occorre rendersi conto che questo non è più un tema; siamo soltanto a metà dell’opera e lo devono capire non solo i liberali radicali, ma anche i popolari democratici: è nel loro interesse mostrare ai ticinesi che sono un partito affidabile, che mantiene le promesse e che crede nel blocco dei moderati che predilige la politica costruttiva e non quella che degli slogan e degli sterili antagonismi».

Sosterrebbe ancora questa unione tecnica o magari la spiegherebbe in maniera diversa?
«Avere più tempo a disposizione ci avrebbe aiutato. Ma in politica non si possono sempre scegliere i tempi giusti. Di fronte a una domanda accorata d’aiuto da parte del PPD, il PLR difficilmente avrebbe potuto rifiutarla, vista la buona e consolidata collaborazione tra i due partiti a Berna. Ma eravamo consapevoli anche delle controindicazioni dell’operazione».

PLR e PPD, storicamente, per la corsa agli Stati hanno spesso fatto quadrato. Basti ricordare il mutuo soccorso tra Dick Marty e Renzo Respini, senza che nulla fosse codificato. Forse a lei sarebbe bastata la stessa tattica senza forzature per gli Stati?
«Forse. Bisogna però ricordare che allora vi erano scenari e costellazioni diverse. Non c’erano poli così forti a destra e a sinistra, non c’era il fronte rossoverde sulla cresta dell’onda per il dossier climatico, con tanto di congiunzione tecnica. E al primo turno non c’erano coppie di candidati e candidate per gli Stati così agguerriti a destra e a sinistra. Non fare nulla, sarebbe stato peggio».

Ma il PPD, poco generoso al primo turno, a suo avviso sente che questa è una partita da giocare fino in fondo?
«La risposta l’avremo il 17 novembre. Il PPD capisce certamente che se non mantiene fino in fondo i patti corre il forte rischio che Filippo Lombardi (verosimilmente rieletto) sia affiancato da qualcuno che voterà sistematicamente all’opposto e i voti si annulleranno a vicenda. Il grosso rischio è questo e io ne rendo attenti i ticinesi. La collaborazione agli Stati ha sempre funzionato grazie alla buona intesa tra i due “senatori” liberale radicale e popolare democratico: solo così si portano a casa risultati. Ricordo per esempio la sede del Tribunale penale federale di Bellinzona, Alptransit e il secondo tunnel del San Gottardo».

Assegnando un seggio alla destra o alla sinistra c’è tutto da perdere e nulla da guadagnare?
«È proprio così, anche perché agli Stati a contare sono le personalità. Servono profili moderati, disposti a compromessi intelligenti che superano gli steccati partitici».

Teme maggiormente Marco Chiesa o Marina Carobbio?
«Entrambi sono avversari temibili. Carobbio e la sinistra ci credono e sono galvanizzati dal primo turno. Ma anche Chiesa è un rivale importante del quale tenere seriamente conto».

Per la congiunzione tra PLR e PPD avere più tempo ci avrebbe aiutato. Ma in politica non si scelgono i tempi

Muova una critica al candidato dell’UDC e della Lega, perché a suo avviso non sarebbe buona cosa se andasse agli Stati?
«Chiesa non è tanto il candidato della Lega, quanto piuttosto l’emissario della famiglia Blocher e ne rappresenta gli interessi in Ticino. Riceve gli ordini da Zurigo, altro che promuovere gli interessi dei ticinesi. Lo abbiamo visto in ogni votazione a Berna in materia di misure accompagnatorie alla libera circolazione, fondamentali per il nostro mercato del lavoro: lui e l’UDC sempre contrari. Non è certo così che si tutela il ceto medio sotto pressione».

Faccia la stessa cosa nei confronti della donna che corre per PS e Verdi.
«Marina Carobbio è una politica con esperienza, ma ha una visione statalista della società e vuole delegare sempre più compiti allo Stato, sottraendoli alla responsabilità individuale. Il suo partito si è opposto al finanziamento unitario delle cure stazionarie e ambulatoriali, essenziale per contenere i costi della salute. Si è opposto anche al moderato incremento delle deduzioni fiscali per i figli a carico, una misura importante per il ceto medio. Per non parlare dei continui ostacoli frapposti a chi fa impresa e crea posti di lavoro».

Qual è il dossier più importante che dovranno affrontare gli Stati nella prossima legislatura e sul quale si sente di poter dire «io farò gli interessi dei ticinesi»?
«Sono tanti, ne scelgo due: primo, la previdenza con la flessibilità del pensionamento. Secondo, la legge sul CO2, dove sarà importante per il Ticino trovare delle soluzioni di compromesso che evitino un costo eccessivo della tassa sulla benzina, visto il diverso sviluppo dei trasporti pubblici da noi».

Se dovesse essere eletto cosa si sente di promettere ai ticinesi?
«Non ho mai fatto promesse mirabolanti. Posso assicurare il mio impegno nel costruire insieme alle altre forze politiche: per il bene del Ticino serve uno sforzo corale. Mi impegno in primo luogo a collaborare con il mio collega agli Stati e a fare in modo che la voce del Ticino sia autorevole e ascoltata. L’ho visto al Nazionale dove ho fatto passare una disposizione che impedisce agli assicuratori di modificare unilateralmente le condizioni contrattuali a danno degli assicurati. E non era affatto scontato, vista la forza della lobby degli assicuratori in Svizzera».

Quel «combattere» e la consapevolezza dell’ultima spiaggia

La malattia e la forza
Giovanni Merlini e Filippo Lombardi hanno fatto promozione «di coppia», ma mostrandosi anche singolarmente. Il candidato del PLR lo si può «incontrare» lungo le strade in diversi cartelloni dove sta scritto: «Combattere». È l’atteggiamento che deriva dalla lotta che l’ha costretta a un trapianto di cellule staminali per sconfiggere la malattia?

«L’esperienza della malattia mi ha insegnato a combattere, la politica altrettanto ed è chiaro che in quello slogan c’è una componente autobiografica che mi ha segnato».

O la va, o la spacca
Merlini ha rinunciato alla corsa con rielezione (forse) «garantita» al Consiglio nazionale per tentare l’incertezza degli Stati. Oggi siamo al «o la va, o la spacca». In caso di disfatta Merlini chiuderà definitivamente con la politica? «È più che verosimile, non vedo bene che cos’altro potrebbe accadere. Ma non sono queste le tragedie della vita, faccio l’avvocato e il notaio, una professione che mi impegna molto. Ma ora penso all’elezione».

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