«Gli ‘ndranghetisti sono venuti in Svizzera per cercare di succhiare la vostra ricchezza»

In Ticino si parla di mafia, ma in termini di «cosa vostra», dimenticando che ormai è anche, purtroppo, «cosa nostra». È con queste parole, rubate a una persona seduta in mezzo al pubblico del festival Endorfine, che si può riassumere l’incontro organizzato oggi con il magistrato Nicola Gratteri. La scorsa settimana nel nostro cantone si era già parlato di mafia, al primo convegno dell’Osservatorio ticinese sulla criminalità organizzata dove la magistrata Alessandra Cerreti ha parlato di realtà che «aprono le porte» alla criminalità organizzata in contrasto con l’immagine del «cancro che attacca un territorio sano». E del nome del procuratore della Repubblica di Catanzaro si legge quotidianamente sui giornali italiani. È suo il ruolo di coordinatore della Direzione distrettuale antimafia che nell’aula bunker di Lamezia Terme, in Calabria, si sta occupando di processi alla ‘ndrangheta. Scaturiti, tra le altre, anche dall’inchiesta “Imponimento” che a luglio 2020 ha portato a un maxi blitz tra Italia e Svizzera e al recente arresto, che ha fatto molto scalpore, di un uomo residente a Grancia attivo come operaio comunale, risultato tra i soggetti di riferimento sul suolo svizzero della cosca Anello-Fruci con base logistica a Filadelfia (Vibo Valentia) e importanti ramificazioni nel nostro Paese. Già, perché la mafia calabrese è penetrata anche in Svizzera, «gli ‘ndranghetisti sono venuti qui per approfittare della vostra ricchezza e cercare di succhiarla», ha detto Gratteri. Le mafie sono presenti dove c’è da gestire denaro e potere, riciclano il denaro del malaffare (hanno il monopolio dell’80% dell’importazione di cocaina in Europa) e mettono le mani su tutto ciò che è in vendita. «Fanno shopping» nel nostro Paese così come in altre nazioni europee.
Non tutti i calabresi sono mafiosi
Ecco perché non bisogna scandalizzarsi, ha spiegato il magistrato, se in Ticino finisce in manette un operaio comunale la cui moglie, al telefono con i giornalisti, dice di non sapere nulla di mafia. «Se avessimo certi legami pensa che io mi alzerei tutte le mattine per andare a fare le pulizie?». A queste parole Gratteri risponde che «per farne parte non è necessario essere ricchi, basta essere funzionali alle esigenze dell’organizzazione. I poveri idioti portano acqua al mulino del boss. Se poi sei pure cretino e non sei capace a fare soldi, peggio per te». Ecco perché la ‘ndrangheta è uscita dal territorio calabrese e si è espansa in tutta Italia, in Belgio, in Olanda. E in Svizzera. «Qui, come altrove, i calabresi hanno portato cultura, tradizioni, intelligenza, capacità. Hanno costruito anche fisicamente pezzi della Svizzera. Ma oltre alle migliaia di persone che si sono integrate, sono emigrati anche degli ‘ndranghetisti. Che investono nelle zone ricche, non in quelle povere». La prima volta che le inchieste del magistrato hanno incrociato il territorio svizzero risale al 1989, nel territorio francofono. «C’erano tre o quattro latitanti che si muovevano indisturbati a pochi chilometri dallo stabile in cui al piano terra si trovava il carcere, al primo piano la polizia e a un livello più su il tribunale. Li abbiamo catturati. E le indagini di mafia sono come le ciliegie: una tira l’altra. Ma se non ci sono l’approccio, la mentalità, la volontà e gli strumenti normativi giusti, diventa difficile dimostrare che esiste la mafia».
Venti locali? Il numero può essere moltiplicato
Se, ha aggiunto Gratteri, non esiste nel diritto il reato di stampo mafioso, come si può impostare delle indagini al riguardo? È qui che entrano in gioco la collaborazione internazionale e la necessità di realizzare un sistema giudiziario più penetrante. «Il sistema legislativo italiano è il più avanzato nel contrastare la mafia e l’Europa dovrebbe adeguarvisi per un reale contrasto al fenomeno», uniti sulla stessa barca, nella stessa battaglia. Ma molto più spesso ci si ritrova a combattere con la difesa della protezione della privacy. Non si possono fare intercettazioni, ai media non è consentito menzionare i nomi degli indagati. «È compito della popolazione far sentire la sua voce e dire che non vuole la mafia a casa sua - ha esortato Gratteri -. Altrimenti un giorno vi sveglierete e in Svizzera vi ritroverete come in Lombardia o Emilia Romagna. La mafia entra nella vita e nel tessuto sociale, nell’economia e nelle scelte politiche. La ‘ndrangheta si inserisce anche nella politica e nell’amministrazione statale. Perché vota e fa votare. Cerca di mettersi con il cavallo vincente». Il procuratore capo di Catanzaro in un’altra occasione ha parlato di «almeno venti locali della ‘ndrangheta in Svizzera», ovvero venti gruppi che agiscono secondo gli ordini dei capi delle ‘ndrine calabresi sul nostro territorio. Ma, ha spiegato, «si parla di venti “locali” perché sono quelle già accertate sul piano giudiziario. Nella realtà possono tranquillamente essere moltiplicate». E quando si prende coscienza della presenza di gruppi di persone che fanno il bello e il cattivo tempo, in casa nostra, sulla base di ordini di mafiosi calabresi, la percezione un po’ cambia. «Bisogna distinguere il fatto storico dal fatto giuridico - aggiunge il magistrato antimafia -. La Svizzera figura spessissimo nelle inchieste. Perché le dogane sono un limite nostro, per le mafie non esistono le frontiere».
Carla Del Ponte vs. Nicola Gratteri
I confini, invece, sono concreti per chi il fenomeno mafioso vuole contrastarlo e combatterlo. «Io devo rapportarmi con sistemi giudiziari diversi - ammette Gratteri -. La collaborazione con la Svizzera negli anni è molto migliorata. Ma permane il limite normativo. Bisognerebbe avere il coraggio e la volontà di creare un sistema più pregnante e corrispondente alla realtà. Non ha più senso dire che la mafia non esiste perché non ci sono morti e auto date alle fiamme». A questo punto gli occhi del procuratore della Repubblica di Catanzaro incrociano quelli di Carla Del Ponte, che lo scorso anno in occasione del festival Endorfine parlò di due grandi suoi primi incontri: quello con il giudice Falcone e quello con “l’insignificante” Totò Riina. «Sono passati vent’anni da quando io non mi occupo più di crimine organizzato e di inflitrazioni mafiose nel nostro territorio - dice l'ex procuratrice generale della Confederazione -. Ma mi rendo conto che nulla è cambiato. Anzi, le mafie sono solo più ricche e questo mi rattrista molto. Sento la sua voce, dottor Gratteri, ma mi sembra di ascoltare un suo collega di trent’anni fa sul piano criminalità».


Gli sforzi fatti a suo tempo affinché «un magistrato italiano possa alzare il telefono e parlare direttamente con un collega svizzero», però, hanno portato a evidenti miglioramenti. «Tenere buoni rapporti con le polizie di tutto il mondo è il modo migliore per contrastare la criminalità nei vari paesi - aggiunge il procuratore -. È fondamentale il rapporto umano. Se hai credibilità, la gente ti ascolta. Attendibilità, serietà sul lavoro e buoni rapporti sono fondamentali». Ma il cambiamento passa dalla gente. Anche se Gratteri parla senza troppi giri di parole di «utopia». «Bisognerebbe lavorare su due differenti piani: la politica e la giustizia. Se il potere politico ritiene che la mafia sia un problema che non esiste, non cambierà le cose. Se la popolazione non alza la voce per chiedere il contrasto delle mafie, per il politico il problema non c’è, come neppure la necessità di agire».

Una vita «in gabbia»
Utopia? Il magistrato Gratteri ci prova davvero a cambiare le cose. Ha dedicato la sua intera vita al contrasto alla ‘ndrangheta. Per capire perché nel 2021 si parla ancora di mafia è passato dallo studio della storia. Dai «ladri di polli» europei del 1700 ai «picciotti» assoldati in Italia per influenzare le elezioni (le prime Comunali annullate dal prefetto risalgono al 1869 a Reggio Calabria), fino ai boss mafiosi che si sono spartiti la Calabria e poi le regioni del Nord. Gli archivi storici gli hanno insegnato che «quando i “ladri di polli” diventano mezzo della classe dirigente, ottengono legittimazione. Aumenta il potere, cresce la ricchezza». E le mafie vanno dove c’è da gestire denaro e potere. Dove lo Stato stanzia miliardi per la ricostruzione post-terremoto o per la gestione della crisi causata da una pandemia mondiale.
Ma - come disse un saggio - se la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio un’evoluzione e avrà anche una fine, può essere contrastata. E il procuratore capo di Catanzaro lo fa, conscio del pericolo. Vive da oltre trent’anni sotto scorta. Il primo agguato lo ha subito quando non era ancora neppure sposato. «Non farlo - avevano detto alla sua fidanzata -, perché stai per maritare un uomo morto». Da quell’unione sono nati due figli. Proprio negli scorsi giorni, dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia è emersa la volontà della ‘ndrangheta di uccidere uno di loro nel 2013, quando il magistrato allora procuratore aggiunto era in pole position per diventare ministro della Giustizia. «Lo avrebbero investito con la macchina - si limita a commentare impietrito Gratteri -, e lui in quel tempo aveva la moto. Poi ha lasciato la Calabria... Si riesce a vivere in cattività solo se si hanno delle motivazioni, se si è convinti che ciò che si fa serva davvero. Se c’è un’idea, un progetto, un sogno. Altrimenti non si fa nulla. Io ho le spalle larghe, e non commetto mai falli di reazione».