L'intervista

«Gli USA restano leader nel mondo, Europa sempre più irrilevante»

Lo storico Stefano Luconi analizza le ricadute del processo di pace avviato a Gaza dal presidente americano - «Trump sta utilizzando la politica estera come un’arma di distrazione di massa da una serie di problemi di politica interna» - Il ruolo degli affari nelle scelte della Casa Bianca
Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, sul palco del vertice di Sharm el-Sheikh. ©YOAN VALAT / POOL
Dario Campione
15.10.2025 06:00

Dopo il vertice di Sharm el-Sheikh, molti interrogativi si susseguono sul ruolo avuto da Donald Trump. La stampa internazionale ha riconosciuto al presidente degli Stati Uniti la capacità, almeno in questa occasione, di riportare il suo Paese al centro della geopolitica internazionale. Stefano Luconi, associato di Storia degli USA all’Università di Padova e autore, tra gli altri, di La nazione indispensabile. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump, (Le Monnier, 2020), riflette con il Corriere del Ticino su questa e altre questioni.

«È indubbiamente vero che Trump è riuscito a presentarsi, seppure con una forte dose di autocelebrazione, come il risolutore della crisi di Gaza - dice Luconi - per quanto sia stato firmato soltanto un cessate il fuoco, non la pace definitiva. Gli Stati Uniti sono sempre stati al centro della scena internazionale, nonostante voci di arretramento che risalgono perlomeno all’11 Settembre 2001. Tutte le volte che si manifesta una crisi internazionale, a torto o a ragione, almeno l’Occidente fa appello a Washington affinché risolva il problema. Lo si vede, ad esempio, con la guerra che la Russia conduce in Ucraina. Gli Stati Uniti non hanno quindi mai abbandonato questa centralità, almeno dalla prospettiva dei Paesi occidentali».

Certo, Gaza non è Kiev. Il presidente dell’Ucraina Volodymyr Zelensky ha chiesto a Trump di risolvere il conflitto così come accaduto in Medio Oriente; una domanda forse non molto realistica perché la Russia di Vladimir Putin non è Israele, costretto in qualche modo a “ubbidire” agli americani. «Decisamente, la Russia si presenta da anni come un’antagonista degli Stati Uniti in campo internazionale, mentre Israele e lo stesso governo di Benjamin Netanyahu sono storicamente alleati di Washington - dice Luconi - È più facile condizionare e mitigare Netanyahu che non negoziare con Putin. Lo abbiamo visto con il vertice in Alaska di questa estate: sostanzialmente non ha prodotto alcunché».

La questione principale

Torna, allora, la questione principale: che cosa sono, oggi, gli Stati Uniti? E soprattutto, che cosa sono gli Stati Uniti con Donald Trump presidente? Sono ancora il gigante dai piedi d’argilla di cui lo stesso Luconi parla nell’ultimo capitolo della sua storia degli USA? «Il problema, per quanto riguarda il ruolo internazionale degli Stati Uniti, è l’opinione pubblica, è l’elettorato interno, sempre meno disposto a impegni fuori dai confini nazionali. Di fronte all’invasione dell’Ucraina, Joe Biden ha dovuto fronteggiare un’opinione pubblica convinta che la presidenza si dovesse occupare dei problemi interni, dell’economia, dell’inflazione che continuava a crescere. Da questo punto di vista, l’elettorato frena, soprattutto nel momento in cui un possibile intervento comporta una spesa per gli Stati Uniti e un impegno sul terreno. Nel caso della crisi di Gaza, non vedremo militari americani impiegati come truppe di interposizione. Per gli Stati Uniti, il limite nell’esercitare la propria leadership mondiale è il freno di un elettorato che a volte non si rende conto, un po’ per mancanza di conoscenze, del significato dell’impegno internazionale, e teme che questo stesso impegno rappresenti una distrazione del governo dai problemi interni o comporti costi che poi si scaricano sui contribuenti».

La passerella di Sharm el-Sheikh

Resta il fatto che prima della cerimonia di Sharm c’è stata un’autentica passerella di capi di Stato e di Governo che andavano a omaggiare Trump. Come giudicare tutto questo? Una necessità per soddisfare l’ego evidentemente ipertrofico del presidente degli Stati Uniti o un passaggio simbolicamente significativo?

«Direi che l’atteggiamento di buona parte dei governanti presenti a Sharm è stato lusingare Trump che, come diceva lei, ha un ego ipertrofico - risponde Luconi - Si è trattato più che altro di coltivare il suo favore, anziché, diciamo così, di parlare di questioni strategiche. Aggiungo una cosa sulla cerimonia egiziana: Trump sta utilizzando la politica estera come un’arma di distrazione di massa da una serie di problemi di politica interna. Basta vedere il tasso di approvazione in patria, che è sceso intorno al 39% dal 48% di febbraio. Oppure, osservare il problema dell’inflazione, che l’amministrazione USA non riesce ad affrontare e a risolvere. O, ancora, le proteste contro una deriva sicuramente autoritaria: per questo fine settimana sono previste nuove manifestazioni “No Kings” e contro la federalizzazione della Guardia nazionale, inviata a Portland, in Oregon, e a Chicago, in Illinois, a sostegno dell’agenzia federale responsabile del controllo delle frontiere e delle retate per catturare e poi deportare gli immigrati irregolari, la United States Immigration and Customs Enforcement (ICE). Quindi Trump, così come ha fatto in passato, utilizza la politica estera per rafforzare la sua levatura di statista, che all’interno non gli è riconosciuta».

Affari e politica

Nei discorsi alla Knesset e a Sharm, oltre che negli incontri con alcuni leader arabi, Trump è comunque sembrato puntare molto sui potenziali “affari”, così li ha definiti; è sembrato, cioè, subordinare la politica agli interessi economici. «Questo è indubbiamente vero - dice ancora Luconi - Peraltro, Trump subordina spesso la politica più agli interessi personali e della sua famiglia che non agli interessi economici più generali degli Stati Uniti, ma anche qui: nulla di nuovo sotto il sole. Il primo viaggio all’estero dopo l’elezione del 2016 fu in Arabia Saudita, dove andò per vendere armamenti per 110 miliardi di dollari al Governo di Riyadh. L’utilizzazione della politica estera per finalità di arricchimento è quasi palese. Pensiamo agli accordi ipotizzati con Kiev: darebbero agli USA quasi il monopolio dello sfruttamento delle terre rare ucraine, anche se da estrarre. Indubbiamente c’è, ed è forte, una componente economica nella politica estera di Trump».

Altro elemento interessante di analisi: nella foto di gruppo di Sharm sono raffigurati molti autocrati e molti leader di Paesi che fanno parte del cosiddetto Sud globale, oggi apparentemente più vicino alla Cina che agli USA. La domanda è se siamo di fronte a un cambio di direzione o ad alleanze mobili, legate al frangente della guerra di Gaza.

«La Repubblica popolare cinese continuerà con la sua politica estera, a prescindere da quanto successo a Gaza - spiega lo storico dell’università patavina - La foto di gruppo, semmai, è significativa perché i leader europei erano tutti, o quasi, in seconda fila. Dimostra, cioè, se non l’inconsistenza, perlomeno l’inconcludenza di un’Europa che non riesce assolutamente a inserirsi in queste dinamiche. Ursula von der Leyen non è stata nemmeno invitata, e la responsabile della politica estera, Kaja Kallas, lunedì era in Ucraina e non a Gaza. L’Unione europea è rimasta del tutto ai margini del processo di pace, a dimostrazione della sua irrilevanza nella politica internazionale».

Che giudizio dare del tycoon

Alla fine, di fronte alla domanda su cosa emerga davvero dopo 10 mesi di presidenza Trump, Luconi parla di «imprevedibilità del personaggio, del suo egocentrismo e di una tendenza all’autoritarismo: tre caratteristiche già conosciute durante il primo mandato, e confermate nel secondo». Caratteristiche che nemmeno il ringraziamento di Joe Biden per quanto fatto in Medio Oriente o il risultato dello stesso vertice sembrano poter rimettere in discussione.

«Credo che non si possa giudicare Trump a caldo su una questione tuttora in corso di sviluppo, soprattutto perché il passato ci induce a essere molto cauti, quando non scettici, sulla durata e sulla tenuta dell’accordo - conclude Luconi - Un cessate il fuoco era stato raggiunto anche pochi giorni prima dell’insediamento di Trump, a gennaio, quando il rieletto presidente aveva minacciato di scatenare l’inferno se Hamas non avesse acconsentito alla tregua; una tregua abbandonata, poi, nel giro di poche settimane. Bisogna vedere quanto regge questa che molti presentano come pace, ma che è invece una tregua, un cessate il fuoco. Dopo un giorno, Israele sembra quasi pensare a un passo indietro, e minaccia di sancire l’inadempienza di Hamas se non saranno restituiti tutti i corpi degli ostaggi uccisi dopo il 7 ottobre. L’entusiasmo, molto momentaneo, rischia di svanire».