«Ho combattuto a Bakhmut, eravamo carne da macello»

Gli spari improvvisi, una macchia di sangue che affiora dalla divisa, la corsa in ospedale trasportato dai compagni. Guerra. Bogdan – usiamo un nome di fantasia – è un soldato ucraino e queste scene le ha vissute sulla pelle. Dalla sua ferita, subita a Bakhmut, si è quasi del tutto ripreso e alcune settimane fa ha lasciato l’ospedale in cui era ricoverato a Kiev. Lo abbiamo contattato al telefono, chiedendogli di aiutarci a capire cosa significa essere al fronte.
Come sta?
«Bene. Cammino con quattro gambe: due mie e due stampelle. Ne avrò fino alla fine dell’estate, poi i dottori rivaluteranno il mio stato di salute. Per il momento ho un certificato dov’è scritto che non posso combattere, ma in futuro potrei essere richiamato».
Qual è il suo più grande desiderio adesso?
«Che la guerra finisca presto e che tutti i ragazzi arruolati possano liberarsi da questo ‘amo’. La cosa più terribile sono gli ordini che arrivano dall’alto. Io sono stato ferito a causa di un ordine sbagliato».
Se la sente di raccontare cos’è successo?
«L’operazione era cominciata di notte. Eravamo in un piccolo avvallamento a Bakhmut, vicino a una fabbrica. La nostra prima linea avanzava, e io mi trovavo nelle retrovie con altri compagni per impedire che fossimo accerchiati. Alla mattina i russi hanno lanciato un contrattacco e a un certo punto, non so da dove, verso di me sono arrivati dei colpi. Un proiettile ha sbattuto contro l’elmetto, l’altro mi si è conficcato nell’anca».
Cos’ha pensato in quell’istante?
«Ero in una sorta di trance da combattimento. Non mi ero neanche reso conto della ferita: è stato un compagno a dirmi che stavo perdendo sangue. Poi è subentrato lo choc».
Ricorda quando si è arruolato?
«Il 25 febbraio, il giorno dopo l’invasione. Ero a Kiev e la città era in tilt. Essendo fra i riservisti, sapevo che in caso di necessità avrei dovuto essere pronto nel giro di ventiquattro ore. Avevo già combattuto nove anni fa nel Donbass, ma questa ultima esperienza è stata decisamente più dura».
Perché?
«Non mi aspettavo che i nostri generali ci trattassero come carne da macello. Mi sembrava di vivere i racconti che avevo sentito sulla Seconda guerra mondiale. So che non è stato così per tutti i battaglioni, ma nel nostro caso sì. E se non segui gli ordini, rischi di finire in tribunale. Di essere visto come un traditore».
Partendo per il fronte, una persona comincia a convivere con l’idea che potrebbe uccidere un altro essere umano. Come si fa ad accettarla?
«La mente di ogni uomo è diversa: alcuni trovano piacere nell’uccidere, altri arrivano a farlo perché sono stati travolti dalle emozioni. Quando apri il fuoco per la prima volta, c’è una barriera psicologica che devi attraversare. Io in questa guerra ho sparato nella direzione del nemico, ma non so se ho ucciso qualcuno. Non mi piace la violenza e non mi faccio guidare dall’adrenalina, ma se mi fossi trovato davanti un nemico e avessi percepito di essere in pericolo, lo avrei ucciso. Se invece lui avesse alzato le mani, non avrei mai premuto il grilletto. Più che altro è difficile accettare l’idea che potrei morire io. Ti chiedi: come succederà? Quando arriva un colpo, non hai nemmeno il tempo di avere paura. E poi è dura veder morire i tuoi compagni. Morire senza ragione, a causa di ordini sbagliati. Dopo tutto questo, la cosa più difficile di tutte è rimanere umani. È importante tornare dalla guerra non solo fisicamente, ma anche psicologicamente. Io dal fronte sono rientrato da sei mesi, ma non è semplice».
Quali immagini le sono rimaste più impresse di questa guerra?
«Nei primi tempi eravamo a Chernihiv, a nord di Kiev. Stavamo percorrendo una strada sui nostri mezzi e abbiamo incontrato un gruppo di nemici, che hanno subito aperto il fuoco. Ci servivano rinforzi e per fortuna siamo riusciti a contattare in tempo la nostra artiglieria. Mentre ci ritiravamo, però, un nostro medico è stato ferito gravemente. Siamo riusciti a caricarlo su un’auto e a portarlo via, e alla fine è sopravvissuto, anche se dovrà soffrire ancora tanto. Poi, quando sono arrivati i nostri blindati, ci siamo salvati anche noi. Un’altra immagine che non dimenticherò è quella dei compagni che mi hanno trasportato per un’ora e mezza, sotto le bombe, quando sono stato ferito a Bakhmut».
Ci racconta altri momenti con i suoi compagni?
«Ricordo quando eravamo in trincea. Un compagno stava dormendo dietro una collinetta e un altro, seduto vicino a lui, parlava con me. A un certo punto i russi hanno lanciato una granata. Uno si è buttato nella trincea, mentre quello che dormiva l’ho preso e trascinato giù io. Non appena eravamo al riparo, è arrivato un altro colpo di granata. Sono ragazzi di vent’anni, e io, che ne ho quaranta, da quel giorno ho iniziato a vederli un po’ come dei figli, a proteggerli».
Ha più notizie di loro?
«Sì, sono al fronte e sono vivi».
Cosa la aiutava a superare i momenti più difficili?
«La preghiera. E le preghiere di altre persone per noi soldati».
Cosa provava per i soldati russi?
«Credo che abbiano subìto un lavaggio del cervello e che alcuni di loro, quando combattono, lo facciano sotto l’influsso di stupefacenti».
Come lo sa?
«Ci sono stati vari episodi. Finiscono a terra solo quando sono feriti molto gravemente, e quando vicino a loro cade una granata è come se non se ne interessassero. Dei segni di alterazione sono stati notati anche fra i prigionieri».
Cosa direbbe ai politici europei che devono decidere sull’invio di armi all’Ucraina?
«Che quelle inviate finora non bastano. Così non vinceremo. A volte riceviamo strumenti che non ci servono, mentre altri hanno tecnologie troppo avanzate, e le istruzioni non sono nella nostra lingua».
Lei perché combatte?
«Per il futuro del popolo ucraino».
Si sente cambiato dalla guerra?
«Prima di rimanere ferito, ero molto arrabbiato. Non riuscivo ad accettare il fatto che alcuni ucraini fossero indifferenti agli sforzi di noi soldati, o addirittura rimpiangessero i tempi dell’Unione Sovietica. E poi ero furioso per gli ordini dei generali. Avevo così tanta negatività dentro… che penso sia stata una sorta di ‘magnete’ per il colpo che ho ricevuto. Da quell’episodio ho cambiato il mio modo di pensare. Oggi sono meno insofferente di fronte agli errori delle persone. Gesù diceva ‘chi è senza peccato, scagli la prima pietra’».