I 25 anni di attività di Emergency

«Com’è possibile che nel corso del secolo passato siamo riusciti a fare scoperte incredibili in tutti i campi ma non siamo stati capaci di fare un piccolo passo in avanti sul piano etico capendo che non ha senso ammazzarci tra di noi e che la guerra è una malattia della specie umana e non qualcosa di innato che non si può evitare?». Gino Strada la guerra la conosce bene e la conosce bene Emergency, l’associazione umanitaria che fondò nel 1994 per offrire cure mediche gratuite alle vittime dei conflitti. ONG che in questi giorni festeggia a Milano i 25 anni di attività con incontri, mostre, concerti e laboratori fino al 30 giugno. Per l’occasione abbiamo intervistato il fondatore della nota associazione.
Dieci milioni di persone curate da Emergency in 18 Paesi del mondo in 25 anni di attività. Cos’è cambiato in questo quarto di secolo?
«La chirurgia per i feriti di guerra continua a essere la parte principale del nostro lavoro ma con gli anni ci siamo resi conto che non ci sono soltanto i feriti da mina, da proiettile o da scheggia ma ci sono tante altre persone che purtroppo sono vittime indirette della guerra. Vittime ancora più numerose e meno rintracciabili; mi riferisco a bambini che non possono essere curati nonostante abbiano malattie banali, donne che non possono più avere una gravidanza sicura perché non c’è più nessuna struttura sanitaria dove vivono perché la guerra ha distrutto tutto. Dalla chirurgia di guerra abbiamo così iniziato a occuparci anche di pediatria e di ginecologia e di tutti quegli strati sociali che non vedono soddisfatto il loro bisogno che è anche un loro diritto: quello di essere curati».
Cosa l’ha delusa e ostacolata di più nel suo lavoro?
«Abbiamo spaziato in molti campi della medicina per accorgerci che il problema enorme e drammatico dei Paesi in guerra lo ritroviamo sotto altre forme anche da noi, dove l’emarginazione e la povertà sono sempre più marcate, viviamo in un periodo in cui non c’è mai stata così tanta diseguaglianza sociale. Questa è la ragione per cui abbiamo cominciato a lavorare anche in Italia, ovviamente il focus all’inizio era sugli immigrati ma poi ci siamo accorti che nei nostri ambulatori venivano molti italiani. La medicina purtroppo va sempre di più verso la privatizzazione, verso l’essere un bene di consumo. Questa idea della medicina come supermercato di privilegi per chi può permettersela non c’è mai piaciuta, abbiamo sempre sostenuto l’idea della medicina come pratica di un diritto. Per cui abbiamo sviluppato un’attività di poliambulatori nelle zone dove si concentrano i migranti e i lavoratori stagionali, dove esistono sacche di povertà incredibili, direi addirittura di schiavitù. Scoprire queste realtà nel tuo Paese colpisce, quando ero un giovane medico non avrei mai immaginato di incontrarle sotto casa».
Quali sono state le difficoltà più grandi?
«Una delle difficoltà maggiori è stata quella di trovare le risorse, un ospedale è un debito continuo e se si vuole essere un’organizzazione indipendente non legata alla politica bisogna darsi molto da fare perché l’unico sostegno può arrivare dai cittadini. Paradossalmente abbiamo trovato meno difficoltà da parte delle persone e delle autorità dei paesi in cui lavoriamo in quanto hanno capito che la nostra presenza non aveva un senso politico legato allo stare da una parte o dall’altra, ma semplicemente quello di aiutare chi aveva bisogno».
Ruanda, ex-Jugoslavia, Afghanistan, Iraq, sono alcuni dei conflitti di cui è stato testimone. In questi anni com’è cambiata la guerra?
«La guerra è cambiata prima che io iniziassi a vederla; se durante la Prima guerra mondiale il prezzo maggiore lo pagavano i militari al fronte, dopo la Seconda guerra mondiale la percentuale delle vittime civili ha raggiunto il 90%. Questo significa che oggi la maggior parte delle vittime di guerra sono persone che non hanno mai imbracciato un’arma e che in molti casi non sanno neanche quale sia la guerra che gli sta attorno. È fuori dalle mie categorie di pensiero quella di costruire un’arma, prima ancora di usarla; ci sono invece un sacco di persone che sono coinvolte nell’industria degli armamenti. Ingegneri che progettano armi per mutilare bambini, che vanno in ufficio e svolgono questo lavoro ogni giorno e poi tornano a casa e giocano con i loro figli in giardino. È una follia e la cosa peggiore è che non c’è neanche un politico che capisca quanto sarebbe utile smettere di fabbricare armi. Nel 2018 la spesa militare nel mondo è stata di oltre 1.670 miliardi di dollari: il reddito della metà dei cittadini del pianeta».