Il burnout, una malattia professionale?

BERNA - Una notte insonne. L’ennesima. E un’inquietudine affezionatasi al suo proprietario come un cucciolo fedele. Sono solo due dei numerosi sintomi che possono essere alla base di un burnout, o sindrome da esaurimento professionale. Un male di cui ancora poco si parla, complici anche i tabù, i pregiudizi, le stigmatizzazioni. Ma la cui crescente importanza ci impone di renderlo protagonista. Così almeno la pensa il consigliere nazionale Mathias Reynard (PS/VS), che con la sua iniziativa parlamentare (che dovrebbe essere trattata dalla Camera bassa questa settimana) chiede che il burnout sia riconosciuto come malattia professionale ai sensi della Legge federale sull’assicurazione contro gli infortuni, e di iscriverlo nella legge. Studi della SECO, dell’Ufficio federale della sanità pubblica e di Promozione Salute Svizzera – scrive il deputato – hanno dimostrato un aumento dello stress percepito dai lavoratori e un suo impatto sulla loro salute. Negli ultimi anni si registra inoltre un aumento e un aggravamento dei casi di esaurimento professionale. Tempo quindi di cambiare approccio: per l'assicurazione malattie, infatti, il burnout è preso a carico soltanto in caso di depressione. Secondo il vallesano, questo non rispecchia la realtà della sindrome da esaurimento professionale e riduce i casi che possono essere coperti da questa assicurazione.
Ma è possibile esigere un riconoscimento se il ruolo degli elementi legati all’attività lavorativa nell’emergere del burnout non è universalmente acclarato? «È come per tutte le malattie professionali», replica Reynard. «Se ha dolori alla schiena, sono legati al suo lavoro, a attività che fa al di fuori di esso o a problemi di schiena che avete da sempre in famiglia?». Il deputato ricorda che, quando s’inserisce una malattia o un problema nella lista delle malattie professionali, si deve provare che «almeno il 50% viene dal lavoro». Un riconoscimento comporterà tutta una serie di vantaggi. Il primo: saranno infine disponibili delle cifre e subentrerà un obbligo d’annuncio; non solo la Suva, ma anche il datore di lavoro sarà messo al corrente. Il secondo vantaggio concerne l’aspetto preventivo. «La Suva dovrà fare prevenzione e avremo un riconoscimento con responsabilizzazione non solo dell’individuo, ma anche dell’impresa», prosegue il nostro interlocutore.
D’altro canto, così Reynard, lo stress è chiaramente in aumento nel nostro Paese, e un dipendente su tre si dice colpito da esaurimento emotivo sul lavoro. Oggi, tuttavia, si tende a far sentire in colpa chi ha un burnout: evocando la responsabilità individuale, si dice al diretto interessato che è lui ad avere un problema, ad essere fragile. «Le persone che hanno avuto un burnout – quasi tutti conoscono qualcuno che ne ha avuto uno, cosa che mostra l’estensione del fenomeno – non sono persone fragili, al contrario: sono persone che lavorano tanto, troppo, che non diranno di no e a cui di conseguenza il datore di lavoro continuerà a dare lavoro da svolgere». Ma il rendere il burnout una malattia professionale non incrementerà il numero di casi? «Al contrario. Oggi questo rischio c’è, perché la presa a carico spetta alle casse malati, quindi siamo noi tutti a pagare con i premi. Non c’è responsabilizzazione».
Ma il giorno in cui la sindrome diventerà una malattia professionale, una volta che il medico della Suva avrà constatato l’esistenza di un problema, si comincerà una procedura di presa a carico, di reinserimento, di prevenzione. E, di conseguenza, diminuirà il numero di casi. Si consideri – ricorda il socialista – che l’aumento dello stress e dell’esaurimento sul lavoro costa secondo la SECO 6,5 miliardi di franchi all’anno alla Confederazione. Ma come spiegare allora il no alla proposta della Commissione della sicurezza sociale e della sanità del Nazionale? Per Reynard, tra le cause c’è una carenza di informazioni, anche perché è la prima volta che il Nazionale si china sul progetto. E quelle ricevute dall’Amministrazione (che specificava come non ci sia riconoscimento a livello internazionale) non erano aggiornate: nel frattempo l’OMS ha infatti dato una definizione di burnout. Infine, «evidentemente c’è un rifiuto un po’ ideologico», conclude il nostro interlocutore.
Non pare esserci traccia d’ideologia però nella risposta della consigliera nazionale Natalie Rickli (UDC/ZH), lei stessa colpita dalla sindrome nel 2012: «Rigetterò questo atto parlamentare», afferma. «Il mio burnout aveva diverse cause, come avviene anche per la maggior parte delle persone colpite che conosco». Appare evidente dunque che la situazione è ancora lungi dall’essere risolta.