«Il cambio di rotta degli USA è partito molto prima di Trump»

Alessandro Colombo, ordinario di Relazioni internazionali all’Università Statale di Milano, si interroga nel suo ultimo lavoro sulla crisi apparentemente irreversibile dell’ordine mondiale. Il CdT lo ha intervistato.
Professor Colombo, è ormai evidente la crisi del sistema liberale che faceva perno sull’egemonia americana: egemonia militare, innanzitutto, ma anche economica e politica. Una crisi i cui germi, lei sostiene, erano tuttavia visibili già da molto tempo.
«Abbiamo una comprensibile, quando non ingenua, tentazione di associare l’origine dell’attuale crisi dell’ordine internazionale al ritorno di Donald Trump alla presidenza degli Stati Uniti o all’aggressione russa all’Ucraina di tre anni fa. Naturalmente, entrambi questi fatti hanno accelerato l’involuzione. Per comprendere la quale, però, dobbiamo andare indietro di quasi due decenni. Il mutamento, la crisi dell’ordine internazionale liberale cominciano, grosso modo, alla metà del primo decennio del XXI secolo per effetto di due shock quasi contemporanei: da un lato, il fallimento politico-militare della guerra in Iraq e, con essa, di tutta l’architettura della guerra globale al terrore; dall’altro lato, la crisi economico finanziaria del 2007-2008. Due eventi che hanno segnato, in larga misura, un tornante degli ultimi 35 anni, e che precedono la sfida della Russia e la crescita della Cina a competitore significativo degli Stati Uniti. Due eventi che ci dicono come, in realtà, l’ordine internazionale liberale sia entrato in crisi soprattutto per una serie di forzature e per errori maturati al proprio interno».
Lei sostiene che la grande illusione dell’Occidente liberale non sia stata tanto la «fine della storia», quanto forse l’idea di poter indirizzare o incanalare la storia in una determinata direzione.
«A parte la lettura ingenua della fine della storia, c’è stata proprio un’amnesia storica su quello che stava avvenendo. Negli anni ’90 del Novecento abbiamo interpretato il contesto nel quale ci trovavamo come un trionfo dell’Occidente, per effetto della fine della guerra fredda e della fine delle grandi contrapposizioni politico-ideologiche del XX secolo. Ma ci siamo dimenticati come il XX secolo fosse stato attraversato da un’altra vicenda, di gran lunga più importante dal punto di vista delle relazioni internazionali, ovvero la fine della centralità dell’Europa e la rivolta contro l’Occidente. Ecco, questa vicenda, dopo il 1990, ha acquistato sempre più peso e credo che, in questo momento, ci troviamo a fare i conti fondamentalmente con ciò che avevamo tentato di dimenticare 35 anni fa».
A proposito del concetto di egemonia globale, lei sostiene come vi siano almeno tre condizioni necessarie: una oggettiva, la superiorità in termini di forza politica, economica e militare; una soggettiva, cioè il fatto di voler impiegare questa superiorità per guidare gli altri; e una intersoggettiva, ovvero la volontà di tutti di farsi guidare. In questo momento, almeno sul piano della condizione soggettiva, gli Stati Uniti sembrano non essere più interessati a esercitare la propria egemonia o, quantomeno, paiono proiettati verso una rimodulazione, peraltro non ancora chiara nei contenuti e negli obiettivi. Perché succede, secondo lei?
«In realtà, l’attenuazione della volontà egemonica degli Stati Uniti, la diminuzione della disponibilità a impiegare il proprio strapotere per guidare gli altri, cominciano 20 anni fa. Iniziano, fondamentalmente, con il passaggio dall’amministrazione di George Bush figlio all’amministrazione di Barack Obama. Anche Obama si è impegnato - con un linguaggio e con forzature molto minori, naturalmente, di quelli attuali - in un grande progetto di ridimensionamento degli impegni americani fuori dai confini nazionali. Il caso di Donald Trump è più estremo, nel senso che Trump continua sì in una politica ormai consolidata di diminuzione e di selezione più accurata delle attività del Paese all’estero, ma lo fa con uno stile diplomatico, se vogliamo usare questa espressione, a dir poco inusuale. E poi, soprattutto, smantellando in modo drastico due pilastri dell’ordine liberale originario: il multilateralismo e il riferimento al patrimonio politico e retorico del liberalismo».
Che poi è la famosa sintesi di mercato, democrazia e diritti umani che oggi non sembra più essere egemone dal punto di vista culturale.
«È così. Negli ultimi anni, alcuni Paesi - i casi più eclatanti, naturalmente, sono quelli russo e cinese - hanno cominciato a rivendicare con sempre più forza il proprio eccezionalismo politico, il proprio eccezionalismo economico e il proprio eccezionalismo culturale. Va detto che, anche in precedenza, altri Paesi non occidentali erano diffidenti nei confronti, ad esempio, del principio dell’ingerenza umanitaria. Tra loro, anche alcuni Stati democratici che, per un’esperienza diversa dalla nostra, l’esperienza cioè della colonizzazione, hanno visto sin dall’inizio nel principio dell’ingerenza umanitaria il rischio di un ritorno al passato e non di una ricaduta in un futuro migliore».
Mi viene in mente quanto diceva alcuni anni fa Luciano Canfora sulla impossibilità di «esportare la democrazia» con le armi.
«Ci sono state senz’altro molte forzature che hanno messo in grave crisi il diritto internazionale. Non dimentichiamo che, anche prima dell’aggressione russa all’Ucraina, il diritto internazionale era stato stirato all’estremo o violato in numerose occasioni. Per l’appunto, in nome di princìpi di ingerenza di tutti i tipi: ingerenza democratica, ingerenza umanitaria, ingerenza strategica, come nel caso della guerra globale al terrore. Abbiamo assistito, negli ultimi 20 anni, a uno smottamento progressivo dell’ordine politico-giuridico internazionale, molto prima, lo ripeto, della catastrofe dell’ultimo quinquennio».
Nel libro lei parla espressamente della sensazione di un «mondo fuori controllo», un mondo in cui più nessuno sembra essere in grado di controllare spinte che potrebbero portare anche a guerre devastanti.
«Credo che sia questa la vera novità degli ultimi 4-5 anni. Noi abbiamo conosciuto molte guerre a partire dal 1990, alcune delle quali distruttive. Ma il tipo di conflitto che avevamo iniziato a considerare quasi irrealistico e inconcepibile era lo scontro diretto tra grandi potenze. Scontro che oggi, invece, giudichiamo possibile, anzi: non facciamo altro che parlarne, in una situazione nella quale i nostri strumenti di controllo sembrano essere venuti totalmente meno. Il governo istituzionale della convivenza internazionale ha ceduto. Il Paese che, nel bene e nel male, ha guidato la comunità internazionale, cioè gli Stati Uniti, non sembra più essere disposto a farlo. E non ci sono Stati che possono prenderne il posto. Anche il mondo dell’informazione giornalistica e quello accademico sembrano disorientati: i loro strumenti di comprensione della realtà, probabilmente, si sono un po’ usurati e questo ha conseguenze non soltanto sul piano teorico, cosa che sarebbe poco importante, ma anche sul piano politico, perché se non comprendiamo bene la realtà, è chiaro che facciamo fatica anche a controllarla».
Lei sostiene nel suo libro che l’unico competitore di pari livello degli Stati Uniti, la Cina, non abbia né le risorse né la volontà di esercitare un’egemonia globale. Andiamo, allora, verso un mondo in cui non ci saranno attori egemoni e forse nemmeno un ordine vero e proprio?
«Questo, di per sé, non sarebbe sconvolgente. La politica internazionale è sempre vissuta nell’equilibrio tra grandi potenze. Noi abbiamo provato nel 1991 una condizione storicamente anomala e quindi, potremmo dire, stiamo tornando verso una situazione più usuale nella quale ci sono 2, 3, 4 o 5 grandi potenze in equilibrio tra loro. Il problema è che non sappiamo più come farlo, poiché tutti i nostri strumenti cognitivi, istituzionali, politico-strategici sembrano in grande difficoltà».
Per chiudere, abbandonata l’idea che l’Occidente possa in qualche modo dominare il mondo, anche soltanto da un punto di vista culturale, che cosa ci aspetta? Dovremo fare i conti con il disordine? E che cosa intende quando spiega, nella parte finale del suo libro, che bisogna «liberarsi dalla propensione all’autoindulgenza»? Forse che è sbagliato continuare a credersi migliori degli altri?
«Realisticamente, il primo passo che dobbiamo fare, credo, è non buttare via le nostre preferenze, la nostra cultura, ma metterci in testa che nel mondo del XXI secolo, per avere un ordine internazionale, sarà necessario trovare una combinazione, una conciliazione, una sintesi tra le nostre preferenze e le preferenze degli altri. Se pretenderemo di affermare, senza alcuna concessione, le nostre preferenze, temo che andremo quasi inevitabilmente incontro a un conflitto distruttivo».
In qualche modo ha anticipato l’ultima domanda che volevo farle. Il titolo del suo libro è, diciamo, abbastanza pessimistico: “Il suicidio della pace”. Dobbiamo avere paura del futuro perché ci siamo giocati la pace oppure, secondo lei, c’è ancora la possibilità che qualcosa succeda?
«C’è ancora assolutamente la possibilità che qualcosa succeda, e non necessariamente essa sarà negativa. Ma questa possibilità dipende da noi, fondamentalmente. Dipende cioè dal fatto che - questa io credo sia la nostra sfida - torniamo a consultare il calendario, vale a dire che ci rendiamo conto di essere nel 2025, non più nel 1995 e meno che mai nel 1880. Non siamo più in un mondo in cui possiamo plasmare come vogliamo i contesti internazionali. Se invece insisteremo a pensare di poter modellare le relazioni internazionali a nostro piacimento, allora penso che davvero aumenteremo, e molto, la possibilità che si vada verso un disastro».
Il libro

Il rischio dello scontro
Dopo quasi quarant’anni dalla fine della Guerra fredda, l’Europa e il mondo sono costretti a confrontarsi nuovamente con il rischio di uno scontro diretto tra grandi potenze. È questa una delle tesi contenute nell’ultimo lavoro di Alessandro Colombo, Il suicidio della pace. Perché l'ordine internazionale liberale ha fallito 1989-2024 (Raffaello Cortina, pagine 352, € 25).
Errori e illusioni
Questo disincanto è il segno per eccellenza del collasso dell’ordine internazionale che investe i rapporti diplomatici, le istituzioni internazionali, la globalizzazione economica e le norme fondamentali della convivenza - a cominciare da quelle sull’uso e sui limiti dell’uso della forza. Da qui, l’urgenza di chiedersi come sia stato possibile ricadere in questa condizione, dopo le illusioni e l’euforia di soli 30 anni fa. Rinunciando come prima cosa a contrapporre una presunta età dell’oro dell’apertura e dell’ottimismo a una regressione nella chiusura e nel risentimento. E riconoscendo come, in realtà, la condizione attuale sia in larga parte figlia degli errori dell’ordine internazionale liberale.