«Il clima è di tutti, non solo della generazione Greta»

Il pianeta soffoca. E la politica, Greta Thunberg insegna, deve agire. Altrimenti, affermano in coro gli esperti, il mondo andrà incontro a una vera e propria catastrofe. Gli occhi sono puntati su Glasgow, sede della ventiseiesima Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. La cosiddetta COP26, crocevia fondamentale da cui dipenderà il nostro futuro. Ma quanto è percepito il tema alle nostre latitudini? E ancora: il messaggio sta passando o sta incontrando delle difficoltà? Domande che abbiamo girato ad Antonio Nucci, dottorando in comunicazione del cambiamento climatico presso l’Istituto di Media e Giornalismo dell’Università della Svizzera italiana.
Quella volta a Rio nel 1992
«Sulla crisi climatica – esordisce Nucci – sappiamo moltissimo grazie al lavoro condotto, decennio dopo decennio, da scienziati e ricercatori di tutto il mondo. Ad esempio, già nel 1988 il climatologo della NASA James Hansen spiegava al Congresso degli Stati Uniti come il cambiamento climatico fosse causato dall’attività umana. Sono passati più di trent’anni e le evidenze scientifiche hanno confermato, pubblicazione dopo pubblicazione, la gravità della crisi climatica».
L’impressione, tuttavia, è che la lotta ai cambiamenti climatici interessi solo (o quasi) le generazioni più giovani. Di riflesso, consapevolezza è un termine a geometria variabile. Quanto c’è di vero? Ancora Nucci: «Il tema è importante per tutti, a prescindere dalla generazione. Le nuove generazioni saranno più toccate dalle conseguenze della crisi climatica semplicemente perché le vivranno per più tempo e con un’intensità maggiore. La “generazione Greta”, i liceali di oggi, è più informata perché esposta a una maggiore quantità di notizie e ha più opportunità di interagire attraverso i social media. Questa però non è la prima volta che i giovani si interessano di clima. Basti pensare ai fondatori di Greenpeace o all’attivista dodicenne Severn Cullis-Suzuki che era sul palco, al summit per la terra di Rio 1992, per chiedere ai governi di agire per mitigare le conseguenze del cambiamento climatico. Non sono solo i giovani ad impegnarsi però: ci sono migliaia gruppi di interesse composti da persone di tutte generazioni che sottolineano il bisogno urgente che i governi prendano in mano la situazione».


Chi crede e chi non crede
Un’altra parola forte, invece, è negazione: c’è una fetta di popolazione che nega i cambiamenti climatici. Come mai? Può trattarsi (anche) di un fenomeno di autodifesa? Per dire: se non ne parlo, magari il mondo non morirà davvero. «È possibile che una parte della popolazione non “voglia credere” al tema – ribadisce il nostro interlocutore –, ma la realtà è che le motivazioni sono più legate a interessi economici, al tipo di informazioni che si sceglie di consumare e al diffuso, ma immotivato, scetticismo nei confronti della comunicazione scientifica. Il problema è che la ricerca scientifica non è qualcosa a cui credere o meno, specialmente quando i risultati vengono confermati da migliaia di articoli pubblicati su riviste peer-reviewed».
C’è anche una questione, come dire, psicologica: finché non vedo, effettivamente, questi cambiamenti non riesco a comprenderli. Alcuni Paesi, tuttavia, stanno già toccando con mano questi cambiamenti. «Il discorso della prossimità è di primaria importanza» conferma Nucci. «In realtà anche in Svizzera stiamo già vivendo le conseguenze del cambiamento climatico: lo vediamo con le locuste egiziane sui nostri balconi a ottobre, lo abbiamo visto quest’estate con le piogge torrenziali che hanno allagato il Ticino o con i ghiacciai delle Alpi che si riducono anno dopo anno. In alcuni Paesi questi cambiamenti sono più drastici e, per alcuni eventi legati all’emergenza climatica, è come avere una finestra sul futuro. In Italia quest’estate si è rilevata la più alta temperatura mai registrata in Europa. Molte città balneari stanno già lavorando a delle strategie per “combattere” l’ingresso del mare in strada. A questo possiamo aggiungere periodi di siccità prolungata, incendi, carenza d’acqua. Sfortunatamente basta sfogliare le pagine di un quotidiano per “toccare con mano” le conseguenze della crisi climatica».
Dal 2010 oltre 21 milioni di rifugiati climatici
Un altro fronte strettamente collegato all’emergenza climatica è quello dei flussi migratori. Banalmente, un pianeta che si surriscalda è un pianeta che costringe sempre più persone a emigrare. I governi come si stanno muovendo in questo senso? «Già oggi l’UNHCR, l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, afferma che dal 2010 a oggi più di 21 milioni di persone all’anno sono state obbligate a lasciare la propria casa a causa di emergenze climatiche» chiosa Nucci. «Ci si aspetta che questo numero cresca, ma i governi stanno ancora facendo troppo poco per quanto riguarda gli accordi. A livello sovra-governativo, una sentenza dell’Alto Commissariato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite afferma che non è possibile deportare i rifugiati che, nella loro nazione, vedono il loro diritto alla vita messo in dubbio dalla crisi climatica. Bisogna sottolineare come chi vivrà questo status di rifugiato proverrà da nazioni che meno di tutte contribuiscono alla crisi».