Negozi

Il commercio è in affanno: «Fate la spesa in Ticino»

Uno studio della SUPSI ha analizzato lo stato di salute del comparto e il suo impatto economico sul cantone - Demografia, e-commerce e turismo degli acquisti rappresentano le sfide principali - Enzo Lucibello (DISTI): «Non demonizziamo nessuno, ma il nostro settore va difeso»
© CdT/Gabriele Putzu
Martina Salvini
14.10.2025 19:00

Come sta il commercio ticinese? E che valore riveste l’intero comparto per il tessuto economico del cantone? Domande a cui ha cercato di rispondere uno studio commissionato dalla DISTI al professor Carmine Garzia, professore di strategia aziendale e imprenditorialità alla SUPSI. Un’analisi dalla quale emerge la resilienza di un settore che tiene duro, ma che negli ultimi anni non riesce più a crescere.

Per capire quanto «pesi» il commercio ticinese, il professor Garzia ha preso in esame vari aspetti: gettito fiscale, occupazione e investimenti. Il comparto, ha spiegato oggi Garzia presentando lo studio, «sta attraversando una fase di maturità». Al punto che, sull’arco di dieci anni, ha conosciuto una crescita solo moderata. Tra il 2012 e il 2022, infatti, il numero di aziende è aumentato del 5% e gli addetti dell’1,7%. Prendendo in considerazione le tre grandi insegne DISTI - Migros, Coop e Manor - emerge come, dal 2018 al 2023, la cifra d’affari sia calata dello 0,6%. «Ci troviamo dunque in una fase di stagnazione e di inizio contrazione», ha sottolineato il professore. Complessivamente, però, il comparto continua ad avere un peso molto rilevante sull’economia locale, rappresentando circa il 14% del PIL cantonale, con un giro d’affari che nel 2023 ha sfiorato i 5 miliardi di franchi (il 59% generato dalla grande distribuzione e il 41% da quella media e piccola). In più, contribuisce «in maniera significativa» al gettito fiscale del Cantone, con 49 milioni di franchi versati nel 2023 tra imposte comunali, cantonali e federali. Si aggiungono inoltre 282 milioni di gettito IVA e oltre 52 milioni provenienti dalla tassazione delle persone fisiche impiegate nel settore. Di questi, ha spiegato il professore, «tra i 40 e i 45 milioni restano interamente sul territorio».

Il ruolo del commercio è considerevole pure se si considera il numero di persone occupate. Secondo i dati del 2022, infatti, il settore impiega quasi 12 mila addetti, per una massa salariale di 736 milioni. Senza dimenticare, ha detto Garzia, gli investimenti nelle strutture fisiche. Nel 2023, sono stati investiti in questo modo oltre 115 milioni, e la parte del leone la fa proprio la grande distribuzione, responsabile di circa il 70% degli investimenti. «Proprio questi investimenti - ha chiarito Garzia - sono necessari per aumentare la produttività delle aziende, permettendo quindi ai negozi di restare sul territorio».

Demografia e potere d’acquisto

Malgrado la sua centralità, il settore sta affrontando anni particolarmente difficili. Definitivamente archiviato il periodo d’oro determinato dalla pandemia, i negozi oggi devono fare i conti con sfide enormi. Una di queste è la demografia. «L’inverno demografico impatta anche sul commercio», ha infatti evidenziato Garzia. Già, perché con la piramide demografica ormai ribaltata e una predominanza di anziani, anche i consumi ne risentono. «E come le aule di scuola, anche gli esercizi commerciali rischiano di restare vuoti». La categoria tra i 65 e i 79 anni a breve toccherà il picco, mentre la curva delle persone tra i 30 e i 44 anni si sta appiattendo. Il punto, però, «è che sono proprio i giovani che creano una famiglia ad avere la maggiore capacità di spesa, mentre con l’invecchiamento cambiano i consumi e calano gli acquisti». Ad allarmare - e parecchio - sono proprio le cifre sui consumi. «Tra il 2006-2008 e il 2020-2021, i consumi per famiglia sono calati del 17%, da 4.799 franchi al mese a 3.976 franchi». E in diminuzione risulta pure la spesa teorica pro-capite, passata da 2.131 franchi al mese a 1.982 (-1,4%). Si tratta, ha commentato Garzia, di dati molto preoccupanti: «Anche perché, a ciò si aggiunge l’aumento dei costi fissi, in particolare quelli legati ai premi di cassa malati, che assorbono una quota crescente del bilancio domestico, comprimendo ulteriormente la spesa destinata ai beni di consumo».

La concorrenza con l’online

A pesare moltissimo, e non è una novità, è poi la concorrenza con il commercio online. In Svizzera, dal 2010 al 2024, l’e-commerce ha conosciuto una crescita del 50%, pari a 5 miliardi di franchi. Secondo Garzia, siamo di fronte a un «cambiamento strutturale, non congiunturale, che ha quindi modificato in modo permanente le abitudini di acquisto dei consumatori». Il grande nemico, come sempre, rimane inoltre il turismo degli acquisti, che in Ticino pesa in maniera preponderante per via della vicinanza con l’Italia. In questo contesto, il tasso di cambio è il principale motore. «È come se, di colpo, fosse stato consegnato nelle mani dei ticinesi un reddito spendibile in aumento di diversi punti percentuali, facendo appena 20-30 minuti di macchina». Ed è «un qualcosa contro cui non si può andare». Un fenomeno, questo, studiato di recente anche dall’Università di San Gallo, che ha mostrato come i consumatori svizzeri acquistino addirittura il 34% del loro fabbisogno totale in negozi fisici all’estero. «Un dato impressionante».

Lavoro di sensibilizzazione

«Non possiamo, né vogliamo, demonizzare chi fa la spesa all’estero. Non siamo nelle tasche dei consumatori», ha quindi chiarito il presidente della DISTI Enzo Lucibello. Tuttavia, l’obiettivo è di sensibilizzare la clientela. «Il nostro è un comparto importante per l’economia cantonale, tanto per la spesa quanto per gli investimenti sul territorio. Ed è un settore che va difeso. Per questo, anziché lagnarci, vogliamo lanciare una campagna di sensibilizzazione che valorizzi e sostenga il tessuto commerciale ticinese». Per Lucibello, «sarebbe sufficiente che ognuno spendesse anche solo un franco in più per poter raggiungere risultati importati». Ma per trainare il comparto, vista anche la concorrenza con l’Italia, serve anche una maggiore flessibilità. «Per quanto riguarda gli orari di apertura, ci stiamo muovendo per allentarli. Il successo riscosso dalle aperture domenicali dimostra che la popolazione ne aveva bisogno. Questo è solo un timido passo, ma sono dell’idea che ogni insegna dovrebbe poter aprire quando ha i clienti. Ovviamente, nel rispetto del tempo e dei salari dei collaboratori». In generale, secondo Lucibello la situazione tratteggiata dallo studio della SUPSI, «non è drammatica, ma ci stiamo avvicinando. Ci troviamo in un momento critico e questa continua cannibalizzazione ci porterà a ricalibrare il numero di addetti nei negozi. Cosa che dobbiamo scongiurare». Per questo, ha concluso, serve l’apporto di tutti: «Dobbiamo cercare di fare gruppo per difendere gli acquisti sul territorio».