L'intervista

Il dandy dei colori: «Il segreto è osare con disciplina»

Il designer Carlo Rampazzi si racconta, nella sua casa-atelier di Ascona
Prisca Dindo
25.06.2023 06:00

«Spirito eccentrico e indomabile, ironico e provocatorio, ultimo imperatore di una stirpe di visionari che ai quattro angoli del pianeta conducono la loro personale crociata contro l’ossessione delle tendenze e l’omologazione degli stili». È così che le riviste specializzate descrivono Carlo Rampazzi. Del resto difficile dar loro torto: l’architetto di Ascona ha firmato con il suo stile unico alcune delle case e degli alberghi più importanti. La sua è un’estrosità vestita con gli stessi colori che indossa. Vivi, esplosivi, totalizzanti. L’abbiamo raggiunto nel suo «Convento» come lo definisce lui. La sua casa di Ascona dove ricarica le batterie prima di ripartire nel mondo per incontrare di persona la sua clientela prestigiosa. «Perché senza contatto umano, la mia creatività si spegne» spiega.

I suoi genitori sognavano per lei un bel posto fisso in banca. Invece lei ha puntato sulla creatività e oggi è un architetto e un interior designer di fama internazionale. Ha vinto lei la scommessa…
«È vero. I miei genitori sognavano per me una carriera in banca oppure un bel posto sicuro nel ramo assicurativo. Invece io ho seguito ciò che sentivo dentro di me già dai miei primi passi su questo mondo. Da piccolo passavo il mio tempo a disegnare, a inventare giochi, a vestirmi come piaceva a me. Quello era il mio mondo. La strada giusta era quella della creatività, non quella del posto fisso. Col tempo i miei genitori lo hanno capito…»

È stata una strada costellata di difficoltà, oppure tutta in discesa?
«C’è una lezione che ho imparato grazie ai maestri di vita che ho avuto la fortuna di incontrare lungo il mio cammino: la creatività senza il rigore non esiste. Sembra impossibile, eppure è così. Se si vuole riuscire in questo campo, occorre un’autodisciplina fortissima. Io non sapevo di avere questa dote, l’ho scoperta man mano. Non mettermi al lavoro perché non avevo voglia di alzarmi, oppure perché fuori pioveva, era fuori discussione. Oggi sono super pensionato eppure continuo a creare, giorno dopo giorno. Il mio lavoro è tutto: il mio hobby, la mia vita. Un vero piacere».

L’anno prossimo festeggio cinquant’anni di successo in questa attività

Come hanno reagito i suoi genitori quando ha comunicato loro che avrebbe tirato dritto?
«Erano molto contrari. Quando visitai il mio primo salone del Mobile mi innamorai subito della produzione di quel periodo. Erano gli anni ’70-80. Un colpo di fulmine. In un attimo comprai diversi mobili firmati da designer prestigiosi. Non avendo soldi, li pagai con quelli dei miei genitori. Inutile dire che la loro reazione non fu gioiosa. "Questa è l’ultima che ci combini" mi dissero furibondi quando rientrai dietro ad una montagna di mobili. Ma io ci credevo, ero sicuro della mia creatività, del mio gusto, del mio modo di vivere. Perciò con una bella dose di incoscienza aprii ad Ascona il mio primo negozio di design. Rassegnati, i miei genitori mi chiesero di non utilizzare il nome di famiglia per le mie creazioni. Non fu un problema: «Selvaggio» era perfetto come logo. L’anno prossimo festeggio cinquant’anni di successo in questa attività».

Il suo primo cliente?
«Me la ricordo benissimo: era una signora, una donna eccezionale proprietaria di una bellissima villa sul Lago Maggiore. Vide un mobile in vetrina e mi disse: «Carlo, me lo porti subito a casa». Lei era molto simile a me: non acquistava per bisogno, ma per amore dell’oggetto. Iniziò così un’amicizia che continua ancora oggi».

Il senso di Carlo Rampazzi per il colore…
«Per me i colori sono la cosa più importante. Lo sottolineavo pochi giorni fa in occasione di una riunione a margine di Art Basel. Alcuni clienti mi chiedevano lumi sulle dosi massicce di colore che utilizzo nelle mie creazioni; «Provate ad immaginare - risposi loro - per un attimo una primavera priva dell’esplosione di colori ma composta da fiori grigi, bianchi neri oppure beige… impossibile vero?». Ecco: per me questo discorso vale anche per la casa. Se il mondo è colorato perché non lo deve essere anche il luogo dove trascorriamo gran parte della nostra vita? Occorre osare. E io oso».

Il suo design è paragonabile alla Haute Couture: crea interni su misura per una clientela ristretta. Le sue creazioni non sono per tutti… Lei è come un couturier…
«Per me i desideri del cliente sono fondamentali. Non seguo le mode, intercetto i sogni di chi si innamora del mio lavoro. Costi quel che costi. Uno dei miei maestri un giorno mi disse: «Ricordati, tu sei innanzitutto un personaggio; la gente vuole te e poi il tuo arredamento». Secondo lui, io ero come i grandi couturier dello scorso secolo: quando indossavi una creazione di Gianni Versace o di Karl Lagerfeld era un po’ come avere addosso una parte di loro. Per me e i miei mobili doveva essere la stessa cosa. Un amico ha trovato un motto per descrivere il mio lavoro che trovo molto azzeccato: «VESTITI come ABITI, ABITA come ti VESTI».

Senza conoscere il committente io non riesco a lavorare, anche se si tratta di un presidente oppure di un emiro. Li devo incontrare di persona

Lei ha decorato panfili da mille e una notte, case e alberghi tra i più importanti del pianeta. Persino aerei. È una questione di fortuna?
«In parte sì. Molti mondi si sono aperti davanti a me senza che io li cercassi. Ad esempio il grande regista teatrale Giorgio Strehler, che io non conoscevo assolutamente, mi chiamò chiedendomi di occuparmi del suo arredamento perché aveva visto la foto di uno dei miei mobili su una rivista… E così è successo in molti altri casi. La mia clientela è molto in vista. A volte tentano di inviarmi i loro segretari per discutere dei progetti, tuttavia io mi rifiuto. Senza conoscere il committente io non riesco a lavorare, anche se si tratta di un presidente oppure di un emiro. Li devo incontrare di persona».

Quale dei suoi lavori la rende più orgoglioso?
«Sono orgoglioso di tutti i lavori».

L’ispirazione dove la trova?
«La trovo parlando con la gente. Quando chiacchiero con un potenziale cliente annoto su un piccolo bloc notes qualche veloce appunto. Descrivo le sensazioni che mi trasmette, i suoi possibili gusti. Materiale prezioso qualora mi confermasse il mandato».

La sua base si trova in Ticino, che non è propriamente l’ombelico del mondo. Perché ha scelto Ascona come centro della sua attività?
«Ascona non è l’ombelico del mondo ma io sono nato qui. Vivo insieme a mia moglie nella casa di mio nonno. Qui c’è il mio ufficio, il mio giardino, le mie creazioni. Le radici mi danno sicurezza. Nel mio «Convento», come lo chiamo io, posso ricaricare le mie batterie e ripartire. A Parigi, una metropoli che mi scuote e che mi fa vibrare, ho un appartamento. Nella Ville Lumière ho conosciuto personaggi meravigliosi. Uno su tutti Olga Berluti, la signora delle scarpe di lusso da uomo, quarta generazione di una famiglia di calzolai italiani emigrata a Parigi alla fine dell’Ottocento. Il suo motto? «La creazione inizia con la disobbedienza». Olga ha calzato personaggi unici: da Pier Paolo Pasolini a Picasso da Onassis e Wojtyla. La conobbi casualmente nel suo negozio parigino. Io mi ero innamorato dei suoi iconici mocassini disegnati da Andy Warhol e cominciammo a chiacchierare fitto fitto. Da allora il nostro legame non si è più spezzato».

Le relazioni pubbliche sono fondamentali nel suo mondo, o mi sbaglio?
«È la gente il motore della mia fantasia. Cerco di immaginare come vivono, in quali spazi. Quando inizio una conversazione telefonica con un cliente, gli chiedo subito su quale sedia è seduto. Per me è importante per l’elaborazione del progetto. I miei clienti lo sanno: preparo sempre l’«inattendu», qualcosa che non si aspettano, non prevista nel progetto. Un oggetto, un mobile, una sedia. Quando lo scoprono prima ci pensano, poi se la tengono tutta una vita».

Siate voi stessi. E poi spostatevi, andate a conoscere altre città, altri Paesi. Il Ticino è bello ma attorno a noi ci sono mondi e persone tutte da scoprire

Come si arriva alla fama: basta il talento oppure ci vuole anche una buona dose di fortuna?
«Ripeto, è l’autodisciplina che conta».

In Francia lei è conosciuto per essere un dandy stravagante, almeno così ho letto in una sua intervista. Le piace quando la descrivono così?
«Ognuno mi può descrivere come vuole. Creo i miei vestiti che sono spesso in sintonia con i colori dei miei interni. Mi piace molto ispirare e farmi ispirare dagli artisti; condividere con loro le conoscenze, ognuno nel proprio campo».

Nella sua attività di interior designer, lei è stato spesso chiamato a ridisegnare gli interni di alberghi di lusso come l’Eden Roc di Ascona, il Carlton di St. Moritz, il Tschuggen di Arosa, il Bülow Palais di Dresda. Quale è il suo approccio? Come interpreta questi spazi destinati all’accoglienza?
«Io voglio creare delle camere dove ci si dimentica della routine. In un albergo a cinque stelle il cliente non deve trovare la quotidianità, bensì l’eccezionalità. Perciò ricreo atmosfere che la gente non trova a casa. In albergo preparo l’"Inattendu", la sorpresa per il cliente».

Cosa consiglia ai giovani ticinesi che si affacciano sul mondo del lavoro?
«Siate voi stessi. E poi spostatevi, andate a conoscere altre città, altri Paesi. Il Ticino è bello ma attorno a noi ci sono mondi e persone tutte da scoprire».