Il reportage

Il dramma degli ebrei etiopi senza una patria e con un futuro incerto

In Etiopia vive un’antica comunità ebraica che, ghettizzata dalla popolazione locale, sogna di trasferirsi in Israele – Un’aspirazione che si scontra con l’ambigua politica del Governo di Tel Aviv che, di fatto, ne fa degli apolidi
Filippo Rossi
07.05.2019 20:09

Quello della comunità ebraica etiope è un dramma che sembra non avere fine. I suoi componenti, soprannominati Falasha («sfollati»), negli ultimi 30 anni hanno sofferto la divisione di migliaia delle loro famiglie nel tentativo di emigrare in Israele: un diritto garantito loro dalla Costituzione dello Stato ebraico, ma messo costantemente in discussione da molti israeliani che sollevano dubbi legati alla loro origine. E sebbene le autorità di Tel Aviv si siano più volte esposte a loro favore, la situazione per alcune migliaia di loro è drammatica: l’Etiopia infatti non li riconosce come propri cittadini lasciandoli senza documenti e dunque impossibilitati a condurre una vita normale. Nel 2015 il Governo Netanyahu ha promesso di toglierli da questo limbo consentendo a tutti i Falasha di trasferirsi in Israele. Dal lato pratico, però, poco è stato fatto: ad oggi infatti solo poco più di 1.300 persone hanno ottenuto il permesso di emigrare.

L’esterno e l’interno della baracca che ospita la sinagoga dei Beta Israel a Lamberet, uno degli «slum» di Addis Abeba. (Foto Filippo Rossi)
L’esterno e l’interno della baracca che ospita la sinagoga dei Beta Israel a Lamberet, uno degli «slum» di Addis Abeba. (Foto Filippo Rossi)

Nel 1991, Israele dichiarò risolto il problema dell’antichissima comunità ebraica in Etiopia, i Beta Israel, riconosciuta come tale dal Governo di Rabin nel 1975. Fra quell’anno e il ’91, molti suoi componenti furono infatti trasferiti nella Terra Promessa con varie missioni militari. Purtroppo però ne mancavano ancora molti all’appello, circa 10 mila. Anche perché una parte della comunità di Tel Aviv non ha mai considerato «veri» ebrei quelli che gli etiopi chiamano «Falasha» (parola che in lingua amarica significa «sfollato»), ossia i parenti e i discendenti di coloro che furono tratti in salvo 30 anni fa. «A loro non piace essere chiamati così», ci spiega un giornalista etiope che ci accompagna alla loro Sinagoga. Il tempio è nascosto fra le viuzze di Lamberet, una delle numerose bidonville della capitale etiope. Circondata da muri alti, si riconosce per la stella di Davide disegnata su un muro che ci appare una volta varcato un cancello. È una costruzione improvvisata, proprio perché la comunità, che preferisce essere chiamata con il suo vero nome, Beta Israel (storpiatura dall’ebraico di «Casa d’Israele»), non ha più un luogo che può considerare casa propria in Etiopia.

I testi sacri e il drappo su cui sono riportati i nomi dei componenti della comunità morti in attesa di trasferirsi in Israele.  (Foto Filippo Rossi)
I testi sacri e il drappo su cui sono riportati i nomi dei componenti della comunità morti in attesa di trasferirsi in Israele. (Foto Filippo Rossi)

La sala della preghiera è coperta da un tetto in lamiera, sostenuto da alcuni pali in legno. Al suo interno, un grande telone bianco separa la zona femminile da quella maschile. Sull’altare c’è la cosa più importante: la Torah, protetta da uno scrigno argenteo. La sala è gremita: le persone pregano indossando kippah, veli bianchi con strisce azzurre, i tipici colori religiosi, e i gartel (le cinture portate dai religiosi ebraici). Di fianco alla sala scoperta, c’è un piccolo edificio adibito a scuola, dove i bambini e i ragazzi imparano le sacre scritture e la lingua ebraica. Un grande telo blu scuro con scritte gialle in amarico è appeso al lato della sala. «Sono i nomi delle persone morte dal 2015 a oggi aspettando di emigrare verso Israele», spiega il capo della comunità Andualem Wubu, rompendo il silenzio pacifico della preghiera. «Dall’inizio di questo secolo sono morte più di 2000 persone della nostra comunità: per malattie, per il continuo errare senza meta, per una vita molto precaria e l’impossibilità di accedere al sistema sanitario nazionale etiope».

Il Governo etiope ci ha ritirato il permesso di residenza, il che non ci permette di accedere alla sanità pubblica e alle razioni mensili di olio da cucina e beni essenziali e all’educazione

Sebbene il luogo di origine della comunità dei Beta Israel sia Gondar, una città situata nel nord del Paese, molti di loro si sono spostati negli ultimi anni nella capitale in attesa di trasferirsi in Israele, dopo le promesse fatte loro dal Governo israeliano e dal primo ministro Benjamin Netanyahu nel 2015. E hanno lasciato tutto, diventando invisibili. «Gli etiopi sanno che vogliamo emigrare in Israele, ecco perché ci chiamano “sfollati”. Non ci vedono come parte della loro comunità» si rammarica ancora Andualem. «Il Governo etiope ci ha ritirato il permesso di residenza, il che non ci permette di accedere alla sanità pubblica e alle razioni mensili di olio da cucina e beni essenziali e all’educazione», commenta invece Eyayu Abuhay, mettendo a nudo la loro fragilità. Né etiopi né israeliani, quindi. Dei veri e propri «sfollati» che attendono con impazienza il momento in cui potranno rivedere parte della loro famiglia in Israele. Perché è questa la loro vera tragedia: sono stati tutti separati. Molte madri hanno lasciato i propri figli in Etiopia o molti padri hanno lasciato andare i loro bambini. «La maggior parte della mia famiglia è in Israele. Solo io e altri tre siamo rimasti qui. Mi sento solo. Il mio sogno è di poterli raggiungere», continua Eyayu. Un’altra storia toccante è quella che ci racconta Demelash Tadilo, un signore ormai anziano ci parla del figlio: «È partito nel 1998. Da quel giorno non l’ho mai più visto. So che ha studiato, che è entrato nell’esercito. Sono fiero di lui ma sono preoccupato quando sento degli scontri con i palestinesi. Sto ancora aspettando una risposta dall’ambasciata israeliana». Anche Fikirte, ormai diventata donna, ha visto partire dapprima i suoi genitori 20 anni fa e in seguito quattro delle sue 6 sorelle: “Per fortuna mi sento spesso con la famiglia in Israele. Ma ci sono famiglie che hanno perso i contatti con i propri cari perché è passato troppo tempo. Ho anche due figli che non possono studiare qui perché non abbiamo una carta d’identità valida».

Perché gli ebrei russi o bianchi sono ammessi in Israele senza discussioni e noi no? Forse perché siamo neri?

I dubbi sollevati in Israele sui Falasha, riguardano soprattutto il diritto all’«Aliyah», l’immigrazione concessa per legge a ogni ebreo del mondo. Secondo alcuni, essendo la loro origine non sempre chiara e di stirpe paterna (nell’ebraismo è la madre a tramandare la religione), non ne avrebbero diritto. Tuttavia, se fino al 2013 vigeva questa visione, Israele ha deciso di rimediare a questa ingiustizia. Ma ormai, la comunità è allo sbando e divisa. Non riconosciuta da un Governo e manipolata dall’altro. E i Falasha sostenuti dalla comunità etiope in Israele ne fanno un caso politico. Spiega Melese Sidisto, uno dei responsabili della sinagoga di Lamberet: «Non abbiamo molte speranze che Israele ci lasci finalmente partire. Sono passati troppi anni e ci sono stati troppi inganni. Non capiamo perché separano le nostre famiglie. Fratelli e sorelle, madri e padri che non si sono più rivisti per anni o sono morti prima. Ci sono sicuro due problemi: razzismo e politica. Il primo si spiega con una semplice domanda: perché gli ebrei russi o bianchi sono ammessi senza discussioni e noi no? Forse perché siamo neri e renderemmo impopolare il partito politico che ci appoggia? Inoltre, il Governo Netanyahu ha usato la comunità etiope per le elezioni del 2015 senza mantenere la promessa».

Alcuni «Falasha» in preghiera all’interno della sinagoga. (Foto Filippo Rossi)
Alcuni «Falasha» in preghiera all’interno della sinagoga. (Foto Filippo Rossi)

Effettivamente, dopo le elezioni del 2015, Netanyahu annunciò che, nell’arco di cinque anni, avrebbe riportato in Israele tutti i Falasha che vivono in Etiopia. Ma il Governo non ha approvato nessun budget (stimato in 55 milioni di dollari annui) né un programma preciso per l’operazione. Fino al 2017, quindi, solo 1.300 permessi di immigrazione sono stati rilasciati. E nel marzo 2019 altre 82 persone sono state accolte. Ma si tratta di una misura minima che non sembra rinfocolare la speranza delle altre migliaia di ebrei etiopi, ancora bloccati in un angosciante limbo ed il cui caso, ormai, è politico oltre che umanitario.

Da Netanyahu solo promesse elettorali

Il premier israeliano Benjamin Netanyahu.  (Foto Keystone)
Il premier israeliano Benjamin Netanyahu. (Foto Keystone)

Sono anni che il Governo israeliano tergiversa sulla spinosa questione dei Falasha. Le accuse rivolte all’Esecutivo di Tel Aviv dagli attivisti e dalla comunità ebraica etiope – in Israele come in Etiopia – sembrano però non aver avuto molto impatto. Alla Knesset ma anche nell’ufficio del primo ministro o nell’ambasciata israeliana ad Addis Abeba, nessuno parla o si esprime sull’argomento. In Etiopia, nel mese di novembre, molti esponenti della comunità ebraica hanno minacciato di indire l’ennesimo sciopero della fame per mettere pressione al Governo israeliano. In Israele, circa 10 mila membri della comunità etiope hanno firmato una petizione indirizzata proprio a Netanyahu intitolata: «Mantieni la promessa». Quella fatta nel 2015, prima delle elezioni. La petizione ha richiesto al Governo di smettere di abusare psicologicamente delle persone e di non violare i principi di buon governo. Dal canto suo, Netanyahu avrebbe dato espressamente l’ordine al ministro degli Interni Aryie Dery di risolvere il problema prima possibile, richiesta sfociata in una nuova ondata di permessi previsti per il 2019.

L’Etiopia, per noi, è una prigione: è come se fossimo detenuti in un altro Paese

Il problema dei Falasha ha creato non pochi scontri politici in Israele. «La Risoluzione 716, passata alla Knesset ma mai implementata dal Governo nel 2016, è la prova che la promessa di Netanyahu di riportare tutti gli ebrei etiopi in Terra Santa è stata solamente propaganda politica. Perché ancora circa ottomila persone sono bloccate in Etiopia? Lo sa solo lui, perché in realtà è il suo ufficio che blocca tutto», è opinione di Alisa Bodner, portavoce di un gruppo di attivisti in favore degli ebrei etiopi in Israele. «Le altre comunità ebraiche sono sempre benvenute in Israele ma non questa, sebbene siano molto credenti e si siano integrati bene, anche se ci sono stati problemi. Oggi molti di loro sono diventati anche politici in Parlamento». In Israele, secondo Bodner, la società appoggia la loro immigrazione per terminare una volta per tutte un processo durato troppi anni. «È un problema che potrebbe essere prevenuto. La gente muore, si sposa senza le proprie famiglie perché sono state fatte delle promesse che non sono state mantenute. E siccome ci sono risorse per investire in altre comunità, bisognerebbe farlo anche per questa. È una responsabilità della comunità ebraica internazionale». Infine è Eyahu Abuhay a voler lanciare un messaggio da Lamberet: «Ho fatto tre scioperi della fame e sono pronto a farne altri. Ma vorrei dire al primo ministro israeliano, al nostro Primo ministro, che se non ci vuole vedere morire tutti qui, ci deve portare in Israele. Non per ragioni economiche, ma perché è la nostra terra ed è nostro diritto. Per noi l’Etiopia è una prigione. È come se fossimo detenuti in un altro Paese. Chiediamo a Netanyahu di considerare il nostro caso come se fossimo la sua famiglia e di immaginarsi come si sentirebbe nel caso in cui la sua famiglia fosse smembrata».