Personaggi

Il genio di Dürrenmatt e le tristi ironie dell’umano

A un secolo dalla nascita rievochiamo la personalità, la poetica e l’opera del più grande scrittore, drammaturgo e intellettuale svizzero del Novecento - Dal gusto sublime per il grottesco e per la provocazione letteraria al legame disincantato e paradossale con il nostro Paese
A colloquio con un amico fidato.
Matteo Airaghi
Matteo Airaghi
04.01.2021 22:12

«Un gigante della cultura europea del Novecento». Forse soltanto l’amico-nemico Max Frisch, dalla sua nuvoletta orbitante sui cieli dell’Onsernone, avrà da ridire, brontolando e masticando amaro, su questa ampiamente condivisa definizione di Friedrich Dürrenmatt di cui si celebra oggi il centenario della nascita. Eppure a trent’anni di distanza dalla sua scomparsa (morì nell’amata Neuchâtel il 14 dicembre 1990) oggi, con il dovuto distacco, possiamo ben dire che Dürrenmatt è uno dei personaggi che danno e continueranno a dare davvero lustro universale alla cultura del nostro Paese. Anzi, Dürrenmatt è uno di quelli così importanti e prestigiosi (con Brecht forse il maggiore drammaturgo di lingua tedesca del secolo scorso) che gli ignoranti o i detrattori del nostro Paese (spesso le due cose vanno purtroppo di pari passo) si stupiscono trattarsi di un illustre svizzero (e che svizzero!) e non di un genio nato in Germania. U n po’ come ancora capita con Le Corbusier (che non era francese) o con Alberto Giacometti (che, horresco referens, qualcuno considera un artista italiano). Ma siccome lui di queste inutili questioni di passaporto si farebbe delle solenni risate cerchiamo di ripercorrere la grandezza della sua figura. Nato il 5 gennaio 1921 a Konolfingen nel bernese dove suo padre esercitava come pastore evangelico, Friedrich Reinhold Dürrenmatt era stato un bambino solitario. Diminuito da malanni e infortuni – a dieci anni fu travolto da un motociclista e per poco non ci lasciò la pelle – passava il tempo baloccandosi con il disegno, i libri d’avventura e di astronomia. Per quanto iconoclasta, un po’ bambino Dürrenmatt lo rimase fino all’ultimo. Miope, paffuto, all’università aveva studiato letteratura, storia dell’arte, filosofia, e in proprio le scienze esatte. Ma sempre, di tutto, si considerò un dilettante. «Dipingo per lo stesso motivo per cui scrivo, dirà: perché penso». E tanto dipingerà fino alla fine anche se è col teatro che Dürrenmatt diventerà dopo alcune difficoltà iniziali una celebrità internazionale. Non a caso l’esperto di letteratura svizzera Peter von Matt ha scritto che la sua cifra stilistica, come la definiremmo oggi, o meglio la sua parola preferita era «drammaturgia». Di qualsiasi argomenti si occupi Dürrenmatt ne schizzava una drammaturgia. «Se rifletteva sulla Svizzera scriveva una “drammaturgia della Svizzera”. Se si occupava dell’amore, ne sortiva una “drammaturgia dell’amore”. La parola possedeva per lui un’incomparabile magia, perché designava l’esatto punto d’incontro tra teatro e filosofia, tra teoria e letteratura». Così fin dalla prima opera andata in scena nel 1947 a Zurigo (Es steht geschrieben, mai tradotta in italiano) le sue riuscite invenzioni teatrali e la sua drammaturgia si rivelano vincenti e dirompenti spesso suscitando scandali epocali. E allora ecco le tante (tragi)commedie (Romolo il grande del 1948, Il matrimonio del signor Mississippi del 1952, Un angelo giunge a Babilonia del 1954) o i fortunatissimi radiodrammi, tra cui ricordiamo almeno Il processo per l’ombra dell’asino, Operazione Vega e Colloquio notturno con un uomo disprezzato). Nel 1956 la pièce che lo consacra definitivamente, Der Besuch der alten dame (La visita della vecchia signora) ancora oggi la sua opera più nota, celebrata e rappresentata, collega il grottesco con il didascalico e da divertissement teatrale si trasforma di colpo in shock violento per la coscienza di ognuno di noi. Il denaro corrompe l’anima e di una società ipocrita fondata sul delitto si può soltanto ridere facendone una caricatura impietosa e beffarda. D’altronde Dürrenmatt non fa mai sconti: l'umanità è senza speranza alcuna di riscatto. Il palcoscenico diviene con questo nichilista iconoclastico un luogo di avventure assurde e di sardoniche allegorie con cui si demistificano le storture della giustizia e si scava negli abissi della corruzione e della colpa. E così sarà con Die Physiker (I fisici,1962) o Der Meteor (La meteora, 1966) a proposito dei quali egli scrisse «solo la commedia sa render conto della nostra situazione. Il nostro mondo ha condotto al grottesco così come ha condotto alla bomba atomica, e del resto i quadri apocalittici di Hyeronimus Bosch sono anch’essi grotteschi. Ma il grottesco è solo un’espressione sensibile, un paradosso sensibile, cioè la forma di qualcosa di informe, il volto di un mondo senza volto, e proprio come il nostro pensiero non sembra poter più fare a meno del concetto di paradossale, che è ancora soltanto perché esiste la bomba atomica. Per paura di essa».

Requiem per il giallo

E poi c’è il Dürrenmatt narratore puro, il romanziere sublime, l’insuperabile creatore (e liquidatore) del genere poliziesco già negli anni Cinquanta. Satira pungente, spirito critico nei confronti della società (a cominciare da quella svizzera) e dell’umano, incorreggibile e immodificabile nella sua corrotta, banale e disperata malvagità li ritroviamo già agli esordi (Weihnacht, Natale 1942, Der Folterknecht, Il torturatore 1943) per poi perfezionarsi sempre all’insegna di una superba qualità letteraria con capolavori del calibro di Der Tunnel, Il Tunnel (1952), Grieche sucht Griechin, Greco cerca Greca (1955), Die Panne. Eine noch mögliche Geschichte, La panne. Una storia ancora possibile (1956) fino a Der Sturz, La caduta (1971), Das Sterben der Pythia, La morte della Pizia (1976) e a Minotaurus, Minotauro. Una ballata con cui nel 1985 sublima la sua poetica nella metafora del labirinto che ospita il povero mostro inconsapevole degno di compassione e tenerezza. Di rilievo planetario sono anche i suoi romanzi polizieschi: su tutti Der Richter und sein Henker, Il giudice e il suo boia del 1952 e il sequel Der Verdacht, Il sospetto (1953) con protagonista il bernese commissario Bärlach nonché il magistrale Das Versprechen, La promessa (1958) in cui la parabola poderosa e straziante del commissario Matthäi (arrivata sino a Hollywood nel 2001 con una non del tutto convincente terza trasposizione cinematografica in cui Sean Penn dirige nientemeno che Jack Nicholson) segna, come dice il sottotitolo del libro, «un requiem per il romanzo giallo». Verità e giustizia, per quanto «i buoni» si sforzino, non sono materia umana; nemmeno nella linda, ordinata, pacifica, perbenista, ipocrita e neutrale Svizzera; tutto è governato dal caso, anche e soprattutto il male e soltanto dal caso può dipendere che i colpevoli vengano, magari, chissà, talvolta puniti.

Implacabile critico del nostro Paese, delle sue contraddizioni, delle sue ipocrisie e delle sue pigre e sonnacchiose meschinità, Dürrenmatt in realtà (o forse proprio per questo) fu un campione di svizzeritudine. Amò profondamente la Svizzera non ne tradì mai i valori profondi esaltandone con coraggio anticonformista le tante positive qualità. Potremmo quasi definirlo l’arcisvizzero perché, nel bene e nel male, ha saputo radiografare pregi e difetti della nostra realtà meglio di chiunque altro.