Il ghetto in Europa e le molte facce della persecuzione contro gli ebrei

Ogni anno, con l’approssimarsi del 27 gennaio - anniversario della liberazione del campo di concentramento di Auschwitz, avvenuta nel 1945 per mano dell’Armata rossa - in tutto il mondo sono pubblicati centinaia di libri e messi in onda altrettanti prodotti audiovisivi il cui obiettivo è celebrare il Giorno della memoria, ricorrenza istituita nel novembre 2005 a New York dall’Assemblea generale dell’ONU per mai dimenticare la Shoah.
Tra i tanti lavori degni di nota, vale certamente la pena segnalare in questo 2024 il libro dello storico americano Daniel B. Schwartz Ghetto. Storia di una parola, uscito nel 2019 per la Harvard University Press e adesso tradotto in italiano dall’editore milanese Hoepli.
L’isola della Serenissima
Come ricorda Adriano Prosperi, «L’esercizio primario dello studioso di storia dev’essere cogliere l’esatto significato delle parole che legge». E «ricostruire il viaggio» anche soltanto di una singola parola non è mai «una banale curiosità erudita». Soprattutto quando questa parola ha inciso con il fuoco la carne viva di milioni di persone innocenti.
Il 29 marzo 1516 la Serenissima Repubblica di Venezia decise di confinare gli ebrei su un isolotto ai margini settentrionali della laguna. «Ordinò ai cristiani che vi abitavano di trasferirsi altrove, e poi dispose sia che si murassero tutti gli affacci esterni delle case e le rive dell’isola, sia che si erigessero due porte, in punti diversi, da chiudere al tramonto. La nuova enclave veneziana non era né il primo esempio di “via o quartiere degli ebrei” - realtà esistente sin da quando era iniziata la diaspora, nei tempi antichi - né il primo caso in Europa in cui si costringevano gli ebrei a vivere in un quartiere chiuso, separandoli dai cristiani (anche se, a seguito del provvedimento della Repubblica, la segregazione residenziale ebbe senz’altro maggiore diffusione, specialmente in Italia). Fatto sta che la creazione di un quartiere coatto ed esclusivo per gli ebrei di Venezia segnò uno spartiacque storico sotto almeno un aspetto fondamentale, perché diede origine al nesso fatidico tra l’idea di segregazione e una parola specifica: “ghetto”».
La ricerca di Schwartz, che insegna Storia della civiltà ebraica alla George Washington University di Washington D.C. è importante e, soprattutto, utile per più motivi. Intanto, perché spiega i diversi tempi e i diversi modi della persecuzione subìta dagli ebrei in Europa: dal tardo Medioevo fino alle camere a gas hitleriane. Poi, perché assegna a molti attori di questa vicenda storica il giusto ruolo: alla Chiesa cattolica, ad esempio, fautrice della segregazione degli israeliti fino ai giorni della breccia di Porta Pia. E ancora, perché illustra i meccanismi culturali e semantici che hanno prima permesso la trasmigrazione della parola ghetto praticamente in tutte le lingue del mondo, e dopo favorito la trasformazione del concetto ad essa associato slegandolo dall’universo concentrazionario e facendolo confluire verso un significato più ampio. Scrive, infatti, Schwartz: «Oltre alla prima trasformazione, consistita nell’assorbimento in altre lingue, la parola ghetto visse», a cavallo dell’Ottocento, «anche un notevole ampliamento della sua gamma di significati e implicazioni. Conseguenza della migrazione, prima in Europa e infine oltre l’Atlantico, fu l’espandersi del ghetto dal punto di vista semantico».
La grande cesura
È chiaro che la cesura più grande in questa lunga vicenda si compie nella prima metà del Novecento. Con l’avvento al potere, in Germania, del partito Nazionalsocialista e il diffondersi a macchia d’olio, in molti altri Paesi, di un fortissimo sentimento di ostilità verso gli ebrei. Sono note le leggi per la difesa della razza approvate in Italia nel novembre del 1938. Ma lo Stato fascista non era l’unico a perseguitare legalmente i propri cittadini di religione ebraica.
In Polonia, alla morte nel 1935 di Józef Piłsudski, capo effettivo della Seconda Repubblica polacca perlopiù contrario all’antisemitismo, acquisirono forza «formazioni politiche esplicitamente antiebraiche come il Partito democratico nazionale (Endek) di Roman Dmowski» che propugnava «La Polonia ai polacchi».
Sempre nella seconda metà degli anni Trenta del Novecento, in Ungheria, si assisté a un avvicinamento progressivo alla Germania nazista, oltre che all’influenza crescente del partito delle Croci Frecciate di Ferenc Szálasi, fascista e smaccatamente antisemita. Nel 1939, il governo conservatore dell’ex ammiraglio asburgico Miklós Horthy approvò in successione due leggi tese a ridurre la presenza degli ebrei nella vita commerciale, industriale e professionale ungherese.
In Romania attecchiva poi uno dei movimenti fascisti e antisemiti più violenti d’Europa, la Guardia di Ferro di Corneliu Zelea Codreanu, capace nelle elezioni del 1937 di conquistare 66 deputati e quasi il 16% dei voti.
La ferocia nazista
Il 21 settembre 1939, meno di un mese dopo l’invasione della Polonia, Reinhard Heydrich, il «Boia di Praga», già comandante della Gestapo e direttore dell’Ufficio centrale per la sicurezza del Reich, emanò l’ordine all’amministrazione civile nazista di «concentrare e internare gli ebrei in quartieri separati nelle città, per ragioni associate alla sicurezza generale della polizia». Poco dopo, il 3 ottobre 1939, fu istituito il primo ghetto ebraico a Piotrków Trybunalski, capoluogo del distretto di Piotrków in Polonia. Nel più grande, a Varsavia, furono ammassate 400 mila persone in un’area di nemmeno 4 km quadrati. Altri ghetti di grandi dimensioni furono creati a Łódź, Cracovia, Białystok, Leopoli, Lublino, Czêstochowa e a Minsk, nell’odierna Bielorussia.
Nonostante tutto, nonostante la disumanità e le condizioni di vita ben oltre l’impossibile, una volta conclusa la guerra la parola ghetto non avrebbe però più evocato soltanto pensieri di debolezza, sottomissione o sconfitta. Ciò accadde grazie soprattutto alla rivolta di Varsavia, iniziata il 19 aprile 1943. Una sollevazione popolare che divenne il principale simbolo dell’eroismo degli ebrei e un paradigma di resistenza. «Dal ghetto - scrive Schwartz - era scaturito il perfetto contraltare all’immagine dell’ebreo del ghetto: il martire combattente che, con il suo estremo coraggio ribaltava il significato stesso della parola».