Il giudizio scolastico: tra frustrazione, merito e valori

Come può la scuola bilanciare efficacemente il suo ruolo di promotrice dello sviluppo personale degli studenti con la necessità di valutarne il rendimento? Non esiste forse una sorta di intimo cortocircuito tra i valori della cosiddetta «scuola inclusiva» e la necessità di introdurre una valutazione degli allievi secondo un metro di giudizio che pone differenze, valori e meriti?
Parafrasando «L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello», il celebre saggio del neurologo britannico Oliver Sacks, «le valutazioni ci mostrano i deficit e non le qualità; ci forniscono solo dati frammentari, mentre abbiamo bisogno di vedere un racconto». Eppure, la valutazione deve rimanere un momento educativo fondamentale nel percorso scolastico di un allievo.
Di questo particolare equilibrio, a volte precario, tra le due dimensioni si parlerà sabato prossimo nell’ambito del terzo convegno organizzato dall’associazione «Essere a scuola». Per il suo presidente, Virginio Pedroni, vale la premessa seguente: «Questo è il filo rosso di ogni nostro incontro. Vogliamo mostrare come la scuola sia, oggi ancora più che in passato, un luogo di esigenze contraddittorie. Anziché negare queste tensioni, o illudersi di poterle superare con il mero tecnicismo pedagogico, le vogliamo portare alla luce». Secondo Pedroni, occorre essere consapevoli del carattere «dialettico» di questo problema, «e non far finta che non esista».
Da una parte, dunque, l’esigenza della scuola di continuare a formare, di trasmettere una cultura e un insieme di valori condivisi collettivamente. Dall’altra, la necessità di sviluppare competenze, secondo un processo di valutazione e selezione. «Si tratta di due esigenze che occorre equilibrare, cercando, in un certo senso, di superare la contraddizione interna». Questo nella convinzione che «la valutazione è anche un modo attraverso cui l’allievo può sperimentare i suoi limiti e imparare a superarli». Certamente, può diventare qualcosa di frustrante che genera un clima di tensione e di disagio, ammette Pedroni. «Il rischio che la scuola possa contribuire ad aggravare, anziché attenuare, questo clima di competizione, e il conseguente disagio, esiste e sarà oggetto del dibattito di sabato prossimo».
Il fenomeno del disagio giovanile, anche all’interno delle mura scolastiche, dovuto al costante timore di non essere all’altezza delle aspettative, oggi è assai diffuso. La risposta, ancora una volta non è univoca, spiega Pedroni. «In primo luogo occorre recuperare una certa idea di scuola, come luogo autorevole, riconosciuto dagli allievi e dai genitori, capace di giudizio credibile, rigoroso ma pure benevolente». Nello stesso tempo, è fondamentale adottare un approccio valutativo che rifletta la complessità e la diversità delle abilità degli studenti. «La scuola deve anche incentivare un clima che integri il possibile insuccesso come parte del processo di apprendimento e di sviluppo personale, abbandonando l’idea che bisogna essere sempre vincenti a tutti i costi». Deve insomma evitare di trasformare le difficoltà scolastiche in una forma di stigmatizzazione sociale o di distruttiva autosvalutazione. Questione di equilibrio tra due estremi negativi: «Una volta c’era il banco degli asini, che tanta sofferenza e umiliazione ha prodotto; d’altra parte, non possiamo far finta che tutte le prestazioni ottengano il medesimo risultato». Più in generale, ogni società, anche quella democratica, ha bisogno di valorizzare i meriti: «Perché quando andiamo dal medico, per esempio, vogliamo che questo medico abbia subito un serio processo di selezione. Ma vorremmo, anche, che la sua formazione non sia stata incentrata solo su competenze tecnico-specialistiche, ma abbia avuto a che fare con qualcosa che richiami l’antica idea di saggezza».
D’altro canto, - osserva ancora Pedroni - c’è una crescente difficoltà da parte dei giovani di accettare la dimensione della sconfitta e della vulnerabilità, «senza vivere un eventuale fallimento parziale come fallimento totale». Accettare quindi il giudizio della scuola come necessario e giusto, in quanto costruttivo e «che non metta mai in discussione la persona, bensì le sue puntuali conoscenze e competenze» è un altro passaggio verso un recupero sano della valutazione.
Secondo Pedroni, tuttavia, questo equilibrio va ricercato tenendo ben presente che l’asse portante dell’educazione, specie nella scuola dell’obbligo, deve rimanere la formazione della persona, «la trasmissione di valori comuni, come la tolleranza e il dialogo, la cultura e il sapere». La scuola, insomma, non può diventare un mero luogo di selezione di una élite, in base a sofisticate griglie valutative e test internazionali. Ancora Pedroni: «L’esperienza dei propri limiti diventa tanto più frustrante, quanto più di fronte a noi ci attende una società puramente meritocratica nel senso peggiore del termine, dove la selezione diventa feroce e la dimensione collettiva sparisce. E dove, per converso, spuntano da ogni parte proposte di falsa e assoluta sicurezza, nella forma di chiusure della società su se stessa, innalzando muri di ogni genere». Di qui, il titolo del convegno: «La scuola madre e matrigna». Una contrapposizione in realtà eccessivamente rigida che, come visto, va assolutamente superata: «Per madre intendiamo la dimensione formativa, culturale, inclusiva, di crescita e di valori; per matrigna intendiamo una scuola valutativa e selettiva. Naturalmente, mi preme sottolineare che a volte le madri sono più matrigne delle matrigne, e viceversa, come accade nel famoso testo di Brecht Il cerchio di gesso del Caucaso».