L’intervista

«Il massacro di Piazza Tienanmen è stato dettato dall’ideologia comunista»

Il politologo Giovanni Andornino ci spiega i retroscena di quel bagno di sangue avvenuto trent’anni fa e com’è cambiata la Cina di oggi
Sopravvissuti al massacro di Piazza Tiananmen e parenti di alcune vittime si sono riuniti a Taipei (capitale di Taiwan) per commemorare il tragico bagno di sangue. La sagoma di un carro armato e quella di uno studente che gli blocca il passo ripropongono la famosa scena che venne diffusa dalle tv di tutto il mondo nel giugno del 1989.
Osvaldo Migotto
05.06.2019 06:00

Il 22 aprile 1989, decine di migliaia di studenti scesero in piazza per i funerali di Hu Yaobang, il leader destituito nel 1987, dopo essere stato l’artefice delle riforme promosse da Deng Xiaoping. Gli studenti cercarono di consegnare al Governo una petizione in cui chiedevano la democrazia. Non ricevendo alcuna risposta, proseguirono le proteste fino alla notte tra il 3 e il 4 giugno, quando intervenne l’esercito e cominciò la repressione. I Paesi occidentali risposero congelando i rapporti con la Cina. Tuttavia il movimento studentesco, che aveva avuto qualche appoggio anche all’interno del Partito comunista cinese e il sostegno di altri strati della popolazione, viene stroncato con l’uso della legge marziale, di arresti e l’uso della censura. Cos’è cambiato oggi in Cina a trent’anni dal massacro di Piazza Tienanmen? Lo abbiamo chiesto al professor Giovanni Andornino, politologo e docente di Relazioni Internazionali dell’Asia orientale all’Università di Torino.

Cos’è rimasto oggi di quel genuino movimento di protesta che nel 1989 chiedeva alle autorità cinesi aperture democratiche?

«In realtà oggi le condizioni sono molto cambiate. Nel 1989 gli studenti, insieme a varie altre componenti della società urbana cinese, tentarono di imporre al partito comunista cinese il principio per cui quest’ultimo è tenuto, in ultima analisi, a rendere conto alla cittadinanza. Fin dal 1949, però, il potere in Cina si sostanzia in un regime di tipo leninista, in cui il Partito è avanguardia del popolo, e dunque non deriva la legittimità del suo monopolio politico dal consenso dei cittadini, bensì dalla propria capacità di creare uno stato moderno, ricco e forte. Ecco che l’esigenza di una qualche supervisione dell’operato del partito è stata sì accolta dalle autorità, ma non nella forma di un controllo affidato alla società attraverso libera stampa o elezioni, bensì per mezzo di un irrobustimento dell’organizzazione del partito stesso».

Quindi il capo che controlla se stesso?

«Sì, esattamente: in un sistema d’ispirazione leninista l’unica strada è l’autodisciplina. D’altronde, come potrebbe un partito d’avanguardia essere supervisionato dalle masse, che per definizione sono da esso guidate, mancando degli strumenti per cogliere il complesso delle dinamiche interne e internazionali che rendono possibile lo sviluppo del Paese? Questa è l’obiezione generale che gli intellettuali organici al partito-stato cinese propongono a chi contesta l’autoreferenzialità del regime cinese».

Come mai a trent’anni di distanza da quei tragici fatti, Pechino ha fatto di tutto per far passare in totale silenzio questo scomodo anniversario?

«Gli eventi tragici del 1989 hanno messo a nudo il disallineamento tra l’orizzonte politico tracciato dal partito e le istanze di vasti settori della società urbana cinese. Sebbene il partito non necessiti del consenso espresso dalla popolazione, il manifestarsi di crisi così acute mette sotto pressione il principio di legittimità del potere stesso. In qualsiasi regime politico non democratico questo è un rischio enorme perché, in assenza di meccanismi per sostituire pacificamente i detentori del potere, la protesta di piazza può sfociare in un cambiamento non nel sistema, ma del sistema nel suo complesso, con conseguenze rivoluzionarie sia per gli interessi costituiti nel Paese, sia per l’incolumità personale di quanti siedono nelle posizioni apicali».

Sono più idealisti i cinesi di oggi o quelli che animarono le proteste di piazza Tienanmen?

«Direi che c’è stata, non solo in Cina ma trasversalmente a livello internazionale, una forte attenuazione della dimensione ideale. Le giovani generazioni sono più concentrate sulla sfera privata che sull’impegno collettivo e l’aspetto ideologico è meno saliente nel definire la loro identità. D’altro canto, a volersi calare nel contesto cinese, per un verso la democrazia occidentale appare spesso poco attraente se non del tutto in crisi, e, per l’altro, non si può negare che le autorità cinesi siano sempre molto attente a reprimere qualsiasi azione collettiva che contesti il potere costituito».

L’autoritarismo del regime cinese è stato accentuato in questi giorni dalle dichiarazioni del ministro della Difesa, il generale Wei Fenghe, che ha difeso la necessità di mettere a tacere la turbolenza politica del 1989. È un messaggio indiretto alla dissidenza cinese?

«No, in realtà è un messaggio in continuità con l’intero impianto del discorso politico cinese legato al movimento di Piazza Tienanmen. È l’idea che il partito abbia scelto il giusto corso d’azione chiamando l’esercito a stroncare la protesta nel sangue, sacrificando vite umane e popolarità al servizio della stabilità politica e di tutto il benessere che questa ha portato con sé per la popolazione cinese nei trent’anni successivi».

In questi ultimi trent’anni in Cina vi è stato qualche progresso nella tutela dei diritti umani?

«Secondo una lettura dei diritti umani in cui prevale la dimensione sociale ed economica, quale è quella prediletta dalle autorità cinesi, certamente il miglioramento diffusissimo delle condizioni di vita ha consentito a centinaia di milioni di cinesi di godere del diritto a una vita fuori dall’indigenza. Per contro, diritti civili e politici - come libertà d’espressione o d’associazione - restano fortemente compressi».