Il Ticino, che invenzione

Come si mantiene l’identità di un Paese nato nel 1803 quasi dal nulla? È sufficiente che la politica si occupi di strade, scuole, tasse, ospedali, energia e sviluppo economico o c’è bisogno anche di altro? Sébastien Peter, storico dell’arte e manager culturale, non ha dubbi. «Inventare il Ticino è stato un cantiere che ha richiesto notevoli risorse, ma ce l’abbiamo fatta anche grazie alla cultura». Peter, che dalla scorsa primavera è direttore dei Servizi culturali di Locarno, non parla a caso. Perché, quando non era ancora stato scelto quale sostituto di Rudy Chiappini, per due anni ha lavorato a una ricerca che è stata resa pubblica oggi dallo Zurich Centre for Creative Economies della Hochschule der Künste di Zurigo. Le politiche culturali in Ticino, questo il titolo. Semplicemente. Anche se di semplice nella storia culturale del Ticino c’è poco. Perché, come ogni storia che si rispetti, è stata un susseguirsi di avvenimenti, eventi e, perché no, anche di colpi di scena. Anche se in realtà è una storia ancora in corso. Partendo da alcuni dati concreti.
In Svizzera l’ente pubblico, riassume Peter nel suo studio, spende circa 3 miliardi di franchi ogni anno per la cultura, cifra che corrisponde allo 0,4% del Prodotto interno lordo (PIL). Le città e i comuni coprono la quota maggiore di spesa, pari al 50%, seguiti dai Cantoni, il 40%, mentre il contributo della Confederazione si ferma al 10%. Ciò comporta una spesa media pro capite di 169 franchi per i Comuni, di 139 franchi per i Cantoni e di 38 franchi per la Confederazione. E in Ticino? Secondo le ultime statistiche disponibili, fa notare l’autore, che sono risalenti al 2012, la spesa totale dei Comuni e del Cantone è stata di 112 milioni di franchi, di cui 41 sono stati pagati dal Cantone e 70,6 milioni dai Comuni. Tutto questo porta a una spesa di 125 franchi per abitante a livello cantonale e di 211,5 franchi per abitante a livello comunale. «Il finanziamento cantonale è quindi leggermente inferiore alla media nazionale, mentre quello dei comuni nettamente superiore», annota Peter.
Tra sostegni e fondamenta
Più in particolare ogni anno il Cantone Ticino riceve 2,7 milioni di franchi dalla Confederazione per valorizzare e salvaguardare la lingua italiana. A cui vanno aggiunti i proventi derivanti dal fondo Swisslos (che hanno importi variabili, nel 2022 sono stati ad esempio di 12,4 milioni di franchi) e i 20 milioni di franchi iscritti nel budget del Dipartimento educazione, cultura e sport (DECS) che devono coprire i costi di gestione e funzionamento del Dipartimento e dei suoi istituti, ma anche sostenere alcuni grandi enti ed eventi culturali, come il Festival del film di Locarno e l’Orchestra della Svizzera italiana (OSI) Ma anche i Comuni, come si è visto, contribuiscono alla cultura. Mettendoci di tasca propria vari milioni ogni anno: solo per restare ai più grandi, Lugano stanzia 30 milioni, Bellinzona 3,2, Mendrisio 2,5 e Locarno 2.
Tanti? Pochi? Di sicuro Lugano, secondo uno studio di Avenir Suisse del 2011, dopo Ginevra è la città in Svizzera che investe di più nella cultura e inoltre si piazza al terzo posto nella spesa culturale per abitante (696 franchi). Del resto, Lugano si distingue anche per avere l’unico polo culturale in Ticino, il LAC, per il quale sono stati spesi 200 milioni di franchi. Ma bastano i soldi per affermare la presenza di una piazza culturale effervescente? Peter fornisce un’altra risposta. «In pochi decenni in Ticino si è riusciti a offrire un’offerta elevata ed elaborata, ma si può fare certamente meglio».
Sembra un paradosso, ma non lo è. Perché fare cultura è come costruire un edificio. Servono le fondamenta, certo. Ma sono importanti anche le pareti e agli arredamenti interni. Tanto più che un’identità, a cui la cultura contribuisce, non è per sempre. Ma evolve. Soprattutto quando come nel caso del Ticino è un’identità minoritaria. «Non avendo una storia millenaria alle spalle – precisa Peter – siamo costretti a reinventare il Ticino continuamente. Non un compito facile. Ma centrale per continuare ad avere il nostro ruolo in Svizzera». Un ruolo riconosciuto, certo. E anche sostenuto. Come testimoniano i 2,7 milioni di franchi concessi ogni anno dalla Confederazione per valorizzare e salvaguardare la lingua italiana, ad esempio.
E di cultura in Ticino se ne fa sicuramente molta, come dimostrano i 94 musei presenti che contribuiscono ad avere in Ticino la più alta densità di musei per abitante in Svizzera. O come attestano, secondo il BAK Economics, i 115 milioni di franchi di valore aggiunto generati da un settore che offre 2.100 posti di lavoro (ma potrebbero essere di più non essendo stati calcolati tutti i settori artistici). Ma allora cosa fare di più? Anzi, meglio? La risposta va cercata nella storia. Perché il Cantone ha davvero ingranato la quinta solo dopo gli anni ’60 del Novecento. E lo ha fatto decidendo di costruire un’identità forte attraverso «la creazione di grandi istituzioni culturali, come il Museo d’arte della Svizzera italiana, l’OSI, il Festival del film di Locarno e così via – sottolinea lo storico dell’arte – tralasciando le realtà più piccole anche e soprattutto per precise scelte strategiche». Eccole le fondamenta. Le fondamenta dell’edificio Ticino.
L’identità messa a rischio
Perché è appunto dalla seconda metà del secolo scorso che prende corpo e vigore il sistema culturale pubblico ticinese, pur con delle importanti eccezioni, come ad esempio la creazione negli anni ’30 della radio della Svizzera italiana chiamata all’epoca Radio Monte Ceneri. Perché già a inizio secolo si cominciava a parlare di identità. Messa a rischio dalla presenza degli svizzeri tedeschi. Tanto che nel 1909, evidenzia Peter, il consigliere di stato Brenno Bertoni diceva: «i tedeschi ci invadono. Tedesca è la ferrovia (nel 1882 venne aperto il tunnel del San Gottardo, ndr.), tedesca la posta, tedeschi i telegrafi, tedesco il commercio, tedeschissimi gli alberghi». A ciò si aggiunse a livello culturale anche «un’avanguardia proveniente dalla Svizzera tedesca», che contribuì alla nascita del Monte Verità di Ascona, ma anche all’apertura in Ticino di nove scuole primarie svizzero tedesche, nonché della Tessiner Zeitung.
Anni in cui serpeggia un certo malessere, soprattutto in una cerchia relativamente ristretta di intellettuali. Come in Francesco Chiesa che in parallelo alla creazione della sezione ticinese della Società Dante Alighieri nel 1908 afferma: «Noi dobbiamo serbarci schiettamente italiani, ed a questo scopo difendere con ogni mezzo l’integrità della nostra lingua». Ma anche Carlo Salvioni pubblicando nel 1914 Le condizioni della coltura italiana nel Cantone Ticino dirà: «Lo spirito germanico fece più conquiste in Ticino durante questi ultimi quattro decenni che non nei quattro secoli precedenti». Così anche se il numero di persone di lingua tedesca rimane piuttosto contenuto – circa 6.000 persone nel 1919 – queste erano comunque percepiti come «un nucleo pericoloso, in ordine etnico, già per la forza numerica, ma che lo diventa tanto più per la forza morale ed economica che rappresenta».
La reazione
Ecco allora il fiorire da parte pubblica di tutta una serie di iniziative, come la legge per la conservazione dei monumenti storici e artistici del Canton Ticino, datata 1909. Due anni prima, nel 1907, arriva la decisione di rivalutare il dialetto e le tradizioni popolari con la nascita del Vocabolario dei dialetti su iniziativa di Carlo Salvioni, che vedrà però la luce solo nel 1952. Sostenute dallo Stato sono anche tutta una serie di feste che nascono dall’oggi al domani, come la Festa delle camelie di Locarno nel 1923, o lo spettacolo Sacra Terra del Ticino che sarà presentato all’esposizione nazionale svizzera del 1939. È in questo clima, annota l’autore dello studio, che la Società ticinese delle belle arti e la Società ticinese dei pittori, degli scultori e degli architetti domandano e ottengono dal Governo sostegni specifici, come la creazione nel 1929 di un fondo cantonale di belle arti con un budget annuale di 6mila franchi.
Nel frattempo, in Ticino continuano ad arrivare artisti e intellettuali di fama. Dal 1933 Olga Froebe-Kapteyn organizzò ad Ascona gli incontri filosofici di Eranos, che attirano diversi grandi nomi della cultura europea, come Carl Gustav Jung, Martin Buber e Karl Kerény. Nella regione di Lugano, sulla Collina d’Oro, negli anni ‘20 si insediano due fondatori del movimento Dada, Hugo Ball e Emmy Hennings, così come lo scrittore Hermann Hesse. Altri ancora arrivano per curarsi, per trascorrere le vacanze e riposare (El Lissitzky, Paul Klee, Oskar Schlemmer, Vassily Kandinsky) o per rifugiarsi dai disordini che agitavano l’Europa (Alexej Von Jawlensky, Marianne Von Werefkin, Arthur Segal. Tutti impulsi che portarono alla costituzione di più istituzioni culturali. «Un caso noto e precoce – rileva Peter - è in particolare la creazione, nel 1922, del Museo Comunale di Ascona, promosso da Marianne Von Werefkin. L’artista, arrivata ad Ascona nel 1918, decise nel 1921 di donare quattro delle sue opere e tre tele di Cuno Amiet, Paul Klee e Arthur Segal al Comune per la costituzione di un nuovo museo comunale».
Ma è appunto nella seconda metà del Novecento, grazie anche alla crescita economica «combinata a una sensibilità culturale accresciuta», che si moltiplicano ad esempio anche le gallerie d’arte. «Diverse famiglie della borghesia locale iniziano a creare collezioni che giocano un ruolo centrale nello sviluppo culturale della Svizzera italiana. Collezioni che poi sono state parzialmente o interamente cedute ai Comuni, che hanno creato dei musei per accoglierle». È il caso, ad esempio, della donazione della Collezione di Adolfo Rossi ed Emilio Sacchi alla Città di Bellinzona nel 1972, che servì alla creazione della Galleria comunale d’arte Villa dei Cedri nel 1985. Oppure della donazione di Aldo e Aldina Grigioni nel 1978 che ha dato vita al Museo d’Arte di Mendrisio nel 1982. Un altro esempio è rappresentato «dalla prestigiosa donazione di Giovanni Züst di 386 opere di artisti ticinesi del XVII-XIX secolo al Cantone nel 1966, che formeranno il nucleo principale della Pinacoteca cantonale, creata nel 1967 e intitolata al donatore».
Il rapporto-bomba
Si arriva poi al 1975. Anno in cui viene pubblicato il rapporto Clottu richiesto dal Consiglio federale per fare il punto sullo stato della cultura in Svizzera. Rapporto che dipinge il Ticino in modo disastroso. «Il Ticino a livello culturale - si scrive - è relativamente isolato. Salvo alcune eccezioni, non ha con le altre regioni della Svizzera, in questo settore, le relazioni continue che conosce sul piano politico ed economico». E ancora. «L’isolamento culturale del Ticino è aumentato dalla mancanza di qualsiasi istituto universitario, di un centro di formazione in grado di animare l’attività culturale. Da tali circostanze risulta che, di conseguenza, con alcune eccezioni, la vita culturale in Ticino è meno sviluppata di quanto potrebbe essere». Un rapporto bomba. Che però, sottolinea Peter, non produce chissà quali scossoni politici in Ticino. Capita però lo stesso qualcosa. Nel 1974 il consigliere nazionale Carlo Speziali chiede alla Confederazione di sostenere maggiormente il Ticino. Il Consiglio federale accetta. Dal 1983 in poi stanzierà ogni anno 2,7 milioni di franchi. A patto di investirli in misure concrete a favore della lingua e della cultura italiane. Ciò porterà il Cantone a creare una Commissione culturale consultiva e soprattutto a un preciso regolamento, che rappresenterà «un primo strumento di strutturazione della politica culturale cantonale», chiarisce Peter. Gli sforzi continuano. Nel 1984 il direttore del Dipartimento dell’istruzione pubblica, Carlo Speziali ammette che, nel settore della cultura, le azioni sono state ancora condotte in modo dispersivo in mancanza di uno strumento di coordinamento adeguato. Nascono allora l’Ufficio della cultura e un progetto di legge di sostegno alla cultura che però entrerà in vigore solo nel 2015.
La nuova grande sfida
«Inventare il Ticino è stato un cantiere», ha detto all’inizio Peter. «E la cultura ha contribuito». Niente di più vero. Anche se i lavori non sono finiti. Perché dopo essersi strutturata oggi la politica culturale ticinese, secondo lo storico, dovrebbe volgere lo sguardo anche alle realtà associative e alla società civile. «Gli strumenti di sostegno agli operatori culturali che sono in particolare al di fuori dei settori istituzionali sono rari e poco strutturati», evidenzia. «Inoltre, a differenza di altre regioni linguistiche della Svizzera, la Svizzera italiana, e quindi il Ticino - continua Peter - non dispone di un’accademia d’arte, nonostante il fatto che questo progetto sia stato discusso fin dal XIX secolo. Questi elementi contribuiscono ad una vera e propria fuga dei principali artisti ticinesi, in particolare coloro che operano nel settore delle arti visive, verso altre regioni della Svizzera o all’estero». Ecco allora che il Ticino, «dopo aver sviluppato negli ultimi decenni una solida rete di istituzioni culturali», dovrebbe abbracciare una nuova grande sfida culturale
Quale? «Uno sviluppo di strumenti di sostegno chiari e strutturati a favore degli artisti contemporanei attivi sul territorio cantonale. Il settore associativo, nonché la società civile, sembrano sollecitarlo con insistenza», dichiara Peter. Anche perché «tali strumenti dovrebbero contribuire allo sviluppo di una scena culturale contemporanea autenticamente diversificata, di qualità paragonabile a quella delle altre regioni linguistiche». Si tratta, conclude l’autore dello studio, anche di superare gli schemi ereditati nel corso di due secoli di storia cantonale, che combinano costruzione identitaria cantonale o locale e concorrenza tra i principali centri urbani. «Schemi che hanno portato a una politica culturale incentrata principalmente sulle grandi istituzioni gestite in modo più o meno diretto dagli organi politici cantonali o comunali».