In Libia è in atto la caccia al migrante

La crisi migratoria è tornata sulla bocca di tutti dopo il caso Sea Watch. Se i numeri degli arrivi sono molto diminuiti, c’è una evidente negligenza nei confronti dei diritti umani in Libia. Il Paese, in guerra civile e guidato dal Governo di accordo nazionale (GAN), controllato da milizie che non controllano tutto il territorio, è stato dichiarato «porto sicuro» ed è sostenuto dall’Unione europea per gestire il flusso migratorio. La situazione confusa dovuta al conflitto in corso e la poca comunicazione fra gli Stati europei, ha quindi favorito lo sviluppo di un vero e proprio business attorno ai migranti , alimentato da chiunque sia in cerca di denaro facile. I migranti sono diventati quindi bersagli da rapire, vendere o torturare senza il minimo rischio. Viaggio al centro della Tripoli clandestina, per capire il meccanismo che intrappola i migranti subsahariani in un Paese dove regna il caos.
TRIPOLI Sono le sei di sera. Novanta chilometri al largo della costa libica. La motovedetta «Ras al Jadea» della guardia costiera libica capitanata dal giovane Mustafa e salpata da Tripoli dopo aver ricevuto un SOS, avvista in lontananza un gommone con a bordo cento migranti. «Bye bye Italia», urla un marinaio sorridendo ironicamente verso il gommone che si avvicina. Si possono distinguere le facce stanche e affrante dei passeggeri. In panico al solo pensiero di tornare in Libia. «Gli daremo tutto quello che possiamo, anche le nostre uniformi se necessario» commenta Mustafa. È umano, a differenza del suo equipaggio che si raduna sul ponte per comunicare con i migranti, i quali cercano di cambiare rotta e fuggire. Invano, il carburante è finito. Un marinaio libico si getta in mare con una cima e arpiona il motore dello Zodiac. È sicuro, i cento migranti a bordo torneranno a Tripoli. In prigione. Il gommone è trascinato a poppa e un altro marinaio salta a bordo per cominciare le operazioni di sbarco.
I migranti salgono a bordo forzatamente mentre i libici urlano «Veloci. Se non vi piace la Libia, tornatevene in Senegal». La puzza è insopportabile; trasudano le condizioni spaventose in cui hanno vissuto negli ultimi giorni, nascosti in qualche buco senza fiatare, aspettando di essere imbarcati. Sara, una rifugiata sudanese, si vuole gettare in mare. Urla, piange. Non ragiona più. Minaccia pure di lasciare solo suo figlio Amir, 5 anni. Lei, in Libia, non ci vuole tornare: «È un inferno» dice.
Il gommone viene tagliato con un coltello e affondato. Dello Zodiac, l’unica cosa recuperata è il motore: «Così i passatori non possono usarlo di nuovo» dice Mustafa. Ma Sara non ne è convinta: «Non lo buttano in mare perché lo rivendono ai passatori per qualche migliaio di dollari. Così tutti ci guadagnano». Sara e suo figlio Amir si siedono a poppa, insieme alle altre cinque donne a bordo. Si addormentano di fianco al rumore assordante del motore. Erano diciotto ore che navigavano.
Pura disperazione
I ragazzi, seduti a prua, si contendono la poca acqua e le provviste messe a disposizione dai marinai che cercano di mantenere l’ordine. «Ora ci riportano in prigione, ci tortureranno, ci metteranno gli elettrodi sui testicoli, ci frusteranno. È meglio morire in mare che tornare in Libia» commenta uno. «Per uscire da quelli che gli europei chiamano centri di detenzione, ma dove non esiste legge, dovremo pagare i poliziotti. E se non lo facciamo ci picchieranno. Ci dicono che conoscono un tale, un subsahariano che vive in Libia che può pagare per noi. Altrimenti dobbiamo chiamare a casa nostra. Chiedono circa 2.500- 3.000 dinari (circa 700-900 franchi) a persona». Ormai molti di loro conoscono il gioco. Hanno tentato varie volte di attraversare. È forse questo l’aspetto più tragico. Il comandante della guardia costiera di Tripoli, Abu Gela, spiega che «il flusso è molto diminuito. Il 90-95% dei migranti non ce la fa più a raggiungere le coste italiane. Questo perché i passatori non danno sufficiente carburante, sapendo che le ONG sono diventate un taxi gratuito. Ma se i migranti possono pagare migliaia di euro per andare in Italia, perché non possono usare quei soldi per vivere liberamente in Libia? Tripoli non è poi così insicura».
Il ritorno alla prigione
La verità, d’altronde, è un po’ differente. La libertà di cui parla Abu Gela non esiste, è un tranello per autogiustificare un meccanismo che ha trasformato i migranti in merce di scambio, volutamente mantenuto dalle autorità del GAN, oggi sotto assedio. E che comincia proprio sulle motovedette. Un business che accontenta tutti: autorità dei centri di detenzione, civili, milizie, gang e infine i passatori. Tutti ci vogliono guadagnare, anche i rappresentanti delle ambasciate subsahariane.
Quando la «Ras al-Jadea» attracca al molo della base navale di Tripoli, i migranti osservano in silenzio la banchina simbolo di un ritorno forzato ad una vita di ricatti, sofferenza e clandestinità. Una volta a terra vengono messi in fila in ginocchio. Sono annichiliti. Due bus con le insegne del centro di detenzione di Tajura, bombardato qualche giorno prima, si avvicinano e puntano loro i fari addosso. Sono «prigionieri». Cominciano a caricarli, quando un paio di loro tentano la fuga disperata, inseguiti dalla polizia. Anche Sara prende Amir e cerca di fuggire. Impossibile. Si sbraccia, grida ancora, mentre Amir, spaventato, urla «mamma». Lo prendono come ostaggio.
I bus partono, scortati da uomini armati, dirigendosi proprio nei centri di detenzione dai quali i migranti fuggivano. La vita, lì dentro, è dura: «Ci danno un pezzo di pane con formaggio al mattino e forse un po’ di pasta la sera. L’acqua spesso è quella del mare. Ci picchiano se ci lamentiamo» raccontano.
Vivere come prede
Ma uscire dai centri di detenzione pagando, non significa essere liberi. Bisognerà guadagnare altri soldi per ripartire. All’aperto il migrante è una preda e quindi si nasconde in luoghi introvabili e messi a disposizione da altri libici in cerca di soldi: scantinati, edifici o case non terminate e senza protezione. Sono i «ghetti». Affittati per diverse centinaia di dollari al mese. Sono solitamente in quartieri popolari, controllati da milizie o bande armate. In uno di questi, nel quartiere Asham, vivono venti migranti in quindici metri quadrati. Uno spazio protetto solo da qualche mattonella e senza finestre, esponendo il luogo al freddo umido dell’inverno o all’asfissiante calore estivo. «Dobbiamo pagare 60 dinari (15 franchi) di affitto ciascuno. Facciamo una colletta per pagarci da mangiare una sola volta al giorno» racconta Kamara, un migrante camerunese che ha già tentato due volte la traversata senza successo. Le condizioni sono pessime. Ci sono topi, insetti, si dorme su materassi buttati per terra. «Ma qui è per i VIP» dicono gli altri ridendo. «Per guadagnare i soldi andiamo alla piazza Ciad, dove arrivano i libici che necessitano di mano d’opera. A volte ci pagano 10, 20 dinari (3-6 franchi) al giorno. A volte niente. E se ci lamentiamo chiamano la polizia e finiamo in prigione».
Guadagnare, però, è il minore dei problemi. Non è solo dalla polizia che devono nascondersi: «Quando usciamo o andiamo al lavoro, è come essere attorniati da lupi. Ovunque potrebbero rapirci. Nel quartiere non ci sono solo milizie in uniforme ma anche delle gang di giovani che ci rapiscono fino a che non paghiamo. Chiedono i numeri delle nostre famiglie a casa. Ci vergogniamo».
Pronti per ripartire
Per risparmiare a sufficienza (fra i 1.000 e i 3.000 euro) per l’attraversata verso l’Europa, i migranti possono vivere nella clandestinità anche più di un anno. «Quando siamo pronti contattiamo un intermediario, il “coqueseur”, che tratta il prezzo con noi e il passatore. Poi ci portano in una casa sicura vicino alla spiaggia dove aspettiamo il nostro turno. C’è gente che ci resta anche tre mesi. In silenzio. Quando infine sali sul gommone hai paura. Ma non puoi esitare. Chi lo fa riceve tante botte, ti spezzano le articolazioni. I passatori sono spietati. Violentano le donne. È meglio salire e morire nel Mediterraneo che subire quelle torture» conclude, amaro, Kamara.
«La libertà è nei nostri cuori», suona la canzone in francese del momento, che passa sulla radio libica. Un migrante esclama: «È solamente così che sopravviviamo alla Libia».
Il conflitto in breve
In Libia è in atto una guerra per procura, dettata da interessi economici e di potere fra clan e tribù. In questo contesto, il 4 aprile scorso il maresciallo Khalifa Haftar, alla guida dell’Esercito nazionale libico (ELN) e in controllo dell’est e del sud del Paese, ha deciso di dare il via all’assedio della città di Tripoli, controllata dal Governo di accordo nazionale (GAN), nato nel 2015 con la firma degli accordi di Skhirat. Il GAN, sostenuto da ONU, comunità internazionale e appoggiato direttamente da Turchia e Qatar, dice di essere un Governo democratico che si difende dall’aggressione dell’uomo forte della Cirenaica e che combatte contro il ritorno di una dittatura alla Gheddafi. Dopo quasi quattro mesi di assedio però, l’ELN (sostenuto da Emirati arabi uniti, Egitto, Francia e Arabia Saudita) ha incontrato una strenua resistenza e non è riuscito a entrare in città. Importante da sottolineare è la difesa di Tripoli da parte di varie milizie che formano il GAN, in particolare quelle di Misurata, oggi le più forti in campo e che dopo la rivoluzione del 2011 si sono imposte come attrici decisive nello scacchiere libico, controllando punti strategici di potere e risorse. In questo momento Tripoli è sotto il loro controllo, ragion per cui oggi difendono la città monopolizzando le otto linee del fronte intorno alla capitale. È alle porte della città che la battaglia si fa intensa, pur in situazione di stallo. Tripoli vive la normalità del quotidiano, spesso senza acqua potabile, tra blackout regolari e code infinite per rifornirsi di benzina. «Combattiamo per la democrazia, per l’unità della Libia, contro la dittatura di Haftar» dicono i soldati al fronte. Ma è propaganda. Molti civili e miliziani, in realtà, sono al fronte solo perché pagati dal Governo. La popolazione cittadina è stanca, vuole stabilità. In molti, pregando per rimanere anonimi, ammettono di volere Haftar vittorioso. Che sia proprio Haftar a guidare il Paese, o il Governo di Sarraj fortemente influenzato dalle milizie legate alle tribù di Misurata, riequilibrare un Paese dove regna l’anarchia sarà un’impresa molto difficile.