In lotta con la cassa malati per non dover temere il sole

Questa vicenda comincia con una bambina che fin dalla nascita piange quando viene esposta al sole e finisce con una battaglia legale lunga tre anni per far sì che la bimba – nel frattempo diventata una ragazza – possa avere un futuro normale a livello professionale, sociale e soprattutto umano. La ragazza si chiama Lara (nome di fantasia), è ticinese, ha una trentina d’anni e soffre sin dalla nascita di una malattia genetica rara, la protoporfiria eritropoietica (EPP). In Svizzera si stima ne soffrano una sessantina di persone, tra cui – in forma più lieve – la sorella di Lara. Lara, in sostanza, è intollerante alla luce. Anche una rapida esposizione al sole (o perfino alla luce artificiale) le causa tremendi bruciori, in particolare alle parti del corpo dove la pelle è più sottile: volto, mani e piedi. I bruciori durano fino a una settimana e le impediscono di dormire. La malattia le è stata diagnostica quando aveva 13 anni e una cura è stata trovata solo nel 2006. La cura si chiama Scenesse, un farmaco sviluppato in Australia che le permette di affrontare il sole e le altre luci quasi come una persona sana. Per diversi anni la ragazza vi ha potuto accedere tramite un programma per uso compassionevole (cioè quando un farmaco in fase di sperimentazione non ancora approvato dalle autorità sanitarie viene impiegato al di fuori degli studi clinici), poi a un prezzo sussidiato dal produttore di 6.000 franchi la dose, da somministrarsi fra 4 e 6 volte l’anno. Nel 2016 il prezzo del farmaco è salito a quasi 19.000 franchi, in seguito alle spese del produttore per ottenere l’accesso al mercato europeo. È a questo punto che si è fatta viva la cassa malati di Lara che non intendeva più rimborsare l’intero prezzo del farmaco e la invitava a limitare a quattro le dosi annue. Ne è seguita una battaglia legale lunga tre anni, con due tappe al Tribunale federale. Tre anni di difficoltà per Lara, che alla fine ha avuto ragione su quasi tutto. Ecco la sua storia.

«Quando da piccola piangevo d’estate i miei genitori non capivano», esordisce la nostra interlocutrice. «D’altronde non c’erano sintomi visibili e mi abbronzavo esattamente come tutti gli altri. Solo quando ho imparato ad esprimermi a sufficienza ho potuto dire quel che provavo e cioè che mani, piedi e naso sembravano andare a fuoco. Un dolore paragonabile a versarsi acqua bollente addosso. Un dolore che nessun antidolorifico riusciva a sedare. Un dolore che durava fino a una settimana e non mi faceva dormire. La diagnosi corretta è arrivata a 13 anni, ma di cure per l’EPP allora non ce n’erano. Ho provato di tutto, dal betacarotene alla vitamina D, passando per la terapia della luce, che però mi causava bruciori. Niente funzionava».
Com’è stato crescere con l’EPP?
«Detto che non so come sia una vita senza malattia, mi ha limitato nelle relazioni. Da bambina era un disastro: non potevo andare ai compleanni o in piscina. Ero l’amica rompiscatole che doveva saltare da un’ombra all’altra e che tutto a un tratto spariva, perché durante gli attacchi non puoi fare altro che isolarti dal mondo. Finiva che evitavo tanti momenti sociali. E col fatto che le malattie genetiche non hanno fine, la comprensione degli altri arriva solo fino a un certo punto. Dopo un po’ smettono di chiederti come stai. Da un lato è un vantaggio, perché non vieni trattata come una malata, ma è una cosa così grossa che chi ti sta intorno fa fatica a venirne a patti. Non essendoci sintomi visibili è anche difficile da comprendere, amici e familiari ci sono e non ci sono. Poi la malattia ha influito anche sui miei studi. L’ultimo anno di Bachelor ho dovuto farlo in sei mesi perché sapevo che da febbraio non sarei più riuscita ad arrivare fisicamente in università. Pure il mio percorso professionale è stato pieno di cambiamenti dovuti alla malattia. Poi per fortuna è arrivata una cura».
Nel 2008 arriva infatti una telefonata da Zurigo...
«Da qualche tempo la malattia era peggiorata e non sopportavo più nemmeno le luci artificiali. Avevo pensieri suicidi, non vedevo un futuro. Poi un giorno mi ha chiamato la dottoressa che mi ha in cura, mi ha detto che c’era un nuovo farmaco che poteva aiutarmi e chiesto se volevo fare parte di uno studio terapeutico. Malgrado i potenziali effetti indesiderati facessero un po’ paura, non ci ho pensato due volte e ho accettato. Il giorno che ho scoperto lo Scenesse è stato il più bello della mia vita, quello della svolta».
Come funziona il farmaco?
«Ti mettono un piccolo innesto – sembra un grano di riso – su un lato dell’addome e da lì viene rilasciato il farmaco. Ha effetto per 8-9 settimane. A me servono dalle cinque alle sei dosi all’anno, a mia sorella invece, che ha una forma più lieve di EPP, ne bastano quattro. Come con ogni malattia il dosaggio dipende dal decorso. In dieci anni non ho mai sofferto effetti indesiderati e finalmente ho potuto fare tutte quelle attività che per altri sono normali, come passeggiare liberamente o fare la spesa quando voglio. Ma soprattutto ho potuto costruirmi un futuro professionale. Da cittadina malata sono tornata una cittadina libera di poter vivere senza handicap. Certo, non posso fare un safari, ma con lo Scenesse ora posso immaginare un futuro più sereno».
Però nel 2016 il prezzo dello Scenesse è triplicato. Allora ha ricevuto una lettera dalla cassa malati che non intendeva pagarlo interamente, limitandolo a quattro dosi. Come ha reagito?
«Sono andata nel panico più totale. Dopo anni di vita normale mi mancava il respiro a pensare di farne a meno. Inoltre l’EPP può danneggiare il fegato e Scenesse come effetto positivo mi ha abbassato i livelli di protoporfirina. Avevo il terrore che potesse finire male. E poi la raccomandazione europea di quattro dosi metteva a rischio il mio dosaggio».
Così ha deciso di combattere.
«Non è stato facile. Per la causa ho perso un anno di vita. Specie all’inizio è stato un caos. Nel 2016 sono rimasta senza Scenesse per nove mesi. Questo mi ha bloccato gli studi e fatto perdere diversi lavori da freelance. Il mio percorso professionale si è bloccato perché ho dovuto concentrarmi unicamente sulla causa. Ho dovuto cercare un avvocato fuori dal Ticino perché qui non ho trovato esperti in materia. Ho dovuto tradurre atti processuali e coordinare vari aspetti. Ero estremamente stressata,ma mi è tornato utile l’anno in cui ho studiato diritto all’Università. E non ce l’avrei mai fatta se non si fosse fatto avanti un benefattore. Una persona straordinaria che per me ha fatto un lavoro immane, oltre a darmi una mano con le fatture e anticiparmi i soldi per una dose di Scenesse nel 2017 quando la cassa malati si rifiutava di pagarla e il Tribunale federale diceva che potevo aspettare gennaio, benché fossero otto anni che la prendevo in dicembre».



Come sono stati questi anni?
«Mi sono sentita discriminata come malata, non mi sono sentita tutelata dallo Stato e non percepivo che la mia salute fosse garantita. L’Ufficio federale della sanità pubblica non ha preso parte al processo. E ci sono stati dei momenti assurdi. All’inizio la cassa malati mi aveva addirittura scritto di contattare il produttore dello Scenesse e di contrattare con lui il prezzo, a me paziente! Assicuratore malattia che prima che il prezzo del farmaco salisse non aveva mai messo in dubbio che mi servissero sei dosi l’anno e che lo Scenesse avesse un alto valore terapeutico. Mi hanno consigliato di prende il Melanotan, prodotto illegale in Svizzera e pericoloso per la salute. E anche a prezzo pieno lo Scenesse non è un farmaco particolarmente caro nell’ambito delle malattie genetiche rare. Poi c’è stata la questione della ricusa della mia dottoressa che mi ha costretto a sottopormi a una perizia umiliante. Umiliante perché è un trauma farsi ispezionare a fondo da un altro dottore quando sei in cura da una delle massime esperte mondiali della malattia. E da questa perizia si sarebbe deciso se avrei ancora potuto avere accesso a un farmaco che usavo senza problemi da anni. Lascio immaginare la frustrazione e lo stress. È difficile rispondere a queste domande, ma lo faccio per sensibilizzare l’opinione pubblica e far riflettere sul fatto che queste situazioni vanno affrontate».
La causa l’ha poi vinta su quasi tutta la linea.
«Ma la vittoria è un po’ amara perché mi lascia enormi incertezze sul futuro. Il giudice ha dato l’ok per cinque dosi, ma la sesta è ammessa solo dopo richiesta alla cassa malati, che deve dare il suo assenso. Sia chiaro: io non desidero assumere sei dosi di Scenesse all’anno, ne ho bisogno. Vorrei tanto che me ne bastassero tre: non è una cosa divertente andare dal dottore ogni due mesi a Zurigo, dove c’è l’ospedale in cui posso assumere il farmaco. Poi c’è incertezza per l’aspetto finanziario. Il giudice mi ha sì riconosciuto il rimborso completo del farmaco, ma dovrò comunque richiedere ogni anno l’assunzione dei costi all’assicuratore malattia e il prezzo può cambiare visto che è legato al rapporto di cambio tra franco ed euro».
L’iter giudiziario, intanto, può aver segnato una svolta.
«Tutte le casse malati hanno capito a poco a poco che il farmaco doveva continuare a essere rimborsato, ma è stato un processo di negoziazione, a volte lungo. La sentenza ha sancito la parità di trattamento, nonché l’innegabile valore terapeutico del farmaco. Quando ho fatto causa, non l’ho fatto solo per me. L’ho fatto anche perché la mia cassa malati aveva smesso di pagarlo a tutti. Non era solo la mia salute a essere in gioco. Credo che la sentenza abbia aiutato anche altri malati e abbia dimostrato che si può ottenere ragione anche contro dei colossi, come sono le casse malati, in un Paese dove secondo me stiamo troppo zitti sulle questioni importanti».
LA SENTENZA: «SENZA IL FARMACO È UNA RECLUSA IN CASA AL BUIO»

Il contenzioso fra Lara e la sua cassa malati inizia nel giugno 2016, quando quest’ultima comunica alla ragazza che da quel momento in poi le rimborserà solo quattro dosi di Scenesse l’anno a 6.560 franchi l’una. Ma nel frattempo Lara per una dose di farmaco deve pagare tre volte tanto, essendo mutato il suo prezzo. Inoltre lei ha bisogno di una quinta dose e, all’occorrenza, di una sesta. La causa finisce due volte davanti al Tribunale federale (TF) ed entrambe le volte viene ritornata al Tribunale cantonale delle assicurazioni (TCA) per una nuova decisione. Nel secondo caso, con la richiesta di stilare una perizia medico giudiziaria che faccia da base per dirimere la vicenda. Questo ci porta alla sentenza in esame. L’ultima, in quanto cresciuta in giudicato. In somma sintesi, il TCA ha stilato la perizia e ha riconosciuto l’alto valore terapeutico dello Scenesse per Lara, garantendole il rimborso di cinque dosi annue. Una decisione su cui vale la pena soffermarsi, sia per la sua corposità (30.000 parole – quasi 70 pagine), sia per i suoi contenuti.

Innanzitutto va sottolineato il paradosso che ha reso estremamente complicato allestire la perizia giuridica. Gli esperti di questa malattia rara sono relativamente pochi e uno dei principali luminari mondiali è la dottoressa che segue Lara. Ne è conseguito che praticamente chiunque potesse svolgere la perizia aveva qualche potenziale conflitto d’interesse, avendo collaborato a vario titolo con la dottoressa o con i produttori del farmaco Scenesse. Tanti dottori sono quindi stati ricusati. Anche il dottore che infine l’ha eseguita aveva visitato Lara 12 anni fa. La cassa malati aveva provato a ricusarlo, ma tardivamente. Il TCA ha in ogni caso sottolineato che, alla luce della sua perizia, «vi è assenza di indizi oggettivi per concludere che l’esperto non disponeva dell’indipendenza e imparzialità necessarie per adempiere al suo compito».
Risolto questo punto, il TCA doveva in sostanza decidere quanto segue: «Occorre dapprima stabilire se il medicamento ha un elevato valore terapeutico sulla ricorrente. In un secondo tempo va esaminato se vi è una giusta proporzione tra beneficio (utilità della cura) e costi». Quanto all’elevato valore terapeutico, la perizia medica afferma che «da un punto di vista medico la paziente ha imperativamente bisogno di un dosaggio sufficiente di Scenesse» e che questo dosaggio è da fissarsi «a 5-6 dosi» l’anno. Il perito ha anche ribadito che non esistono cure alternative. La perizia è stata di fatto accolta pienamente dal TCA, che la riassume così: «Senza medicamento l’interessata è reclusa in casa al buio, senza luce e con dolori atroci, con il medicamento l’insorgente vive».


Il TCA nella lunga sentenza a tratti è apparso quasi seccato per il comportamento della cassa malati: «Fatichiamo a comprendere i motivi per i quali nel caso di specie, di fronte a risposte così cristalline da parte del perito e di tutti i medici che hanno visitato la ricorrente, l’assicuratore insista nel contestare la gravità della patologia di cui è affetta la ricorrente, soprattutto in assenza di un rapporto di valutazione medica di segno contrario che neppure il proprio medico fiduciario ha allestito». Ancora: «Appare scioccante che l’assicuratore possa rimettere in discussione l’alto valore terapeutico del principio attivo applicato all’assicurata in occasione dell’aumento del prezzo della medicina, aumento causato da fattori assolutamente estranei all’assicurata. L’aumento del prezzo non muta in nulla il valore terapeutico. Non deve certo essere la persona assicurata, che non ha alcun potere contrattuale, a subire la politica dei prezzi applicata ai medicamenti». E ancora: «Il TCA non può esimersi dal sottolineare che se il medico fiduciario, come più volte richiesto insistentemente dalla paziente, avesse perlomeno visitato l’interessata, la quale si è messa a completa disposizione dell’assicuratore sin dall’inizio, avrebbe avuto la possibilità di sincerarsi direttamente circa il risultato della sua e quindi dell’alto valore terapeutico nel caso di specie». A titolo abbondanziale, infine, il TCA sottolinea inoltre che nel frattempo altre casse malati stessero pacificamente rimborsando completamente lo Scenesse ad altri pazienti. Se questa situazione non viene sanata, ha scritto il TCA, «Una persona assicurata può vedersi riconosciuto o respinto il rimborso dei costi di un medicamento a dipendenza dell’assicuratore presso il quale è affiliato. Ciò che, nell’ambito di un’assicurazione sociale obbligatoria per tutta la Svizzera (che concretizza il diritto alla salute e alle cure medico sanitarie), non appare ammissibile ed è lesivo del principio cardine della solidarietà insito nel sistema dell’assicurazione sociale svizzera».
Unica cosa non riconosciuta automaticamente a Lara dal TCA è la sesta dose annua di Scenesse: «Resta riservata la possibilità, per la sua dottoressa curante, in casi di necessità oggettivamente medicalmente comprovate, di inoltrare una richiesta all’assicuratore per una dose supplementare. Spetterà poi alla cassa malati decidere in merito». A questo proposito Lara ha affermato: «Spero di non averne mai bisogno e che non debba ricorrere a una nuova causa nel caso mi servirà. In ogni caso non penso mi verrà rifiutata dopo questa sentenza, ma spero che nel frattempo la legge cambi a favore dei malati».
ROCCO FALCHETTO: «C’È ANCORA DISPARITÀ DI TRATTAMENTO»

La Svizzera ha adottato un Piano nazionale malattie rare, che interessa anche chi soffre di EPP. In merito all’accesso ai farmaci abbiamo contattato Rocco Falchetto, biochimico e presidente della Società svizzera per la porfiria, affetto egli stesso da EPP.
Come valuta la situazione attuale?
«Nel marzo 2017 è stata operata una modifica all’ordinanza sulle assicurazioni malattia che ha migliorato per noi l’accesso alle cure ma non ha risolto il problema: riteniamo che vi siano ancora disparità di trattamento da malato a malato. L’articolo 71c chiarifica l’assunzione dei costi dei farmaci importati non inseriti nell’elenco delle specialità (che include quelli pacificamente rimborsati dagli assicuratori malattia – ndr), come lo Scenesse. L’articolo specifica che la cassa malati deve rimborsare il farmaco al prezzo fissato all’estero (nel caso dello Scenesse 14.100 euro a dose) se questo ha un alto valore terapeutico. L’articolo 71d inoltre specifica che l’assicuratore è tenuto a rimborsare i costi effettivi, cioè il prezzo del farmaco maggiorato dall’IVA e dai costi di distribuzione. Purtroppo però alcune casse malati interpretano l’ordinanza a loro discrezione. Per esempio, non tengono conto delle fluttuazioni del cambio franco-euro, oppure si rifiutano di pagare le quote dovute all’IVA e alla distribuzione. Ma possono anche decidere di caso in caso e in maniera arbitraria di rifiutare completamente l’assunzione dei costi, con la conseguenza che il paziente è in balia della fortuna nell’accedere alle cure. Per questo parlo di disparità di trattamento. Allo stato attuale la nostra dottoressa curante (la stessa di Lara e di quasi ogni malato di EPP in Svizzera – ndr) deve battersi affinché il farmaco sia completamente rimborsato a ogni singolo paziente da ogni cassa malati, ogni anno. Allo stato attuale dobbiamo infatti richiedere ogni anno l’assunzione dei costi».
L’auspicio è quello di sanare la situazione?
«Sì, ma l’ordinanza è appena stata modificata e sarà difficile in tempi brevi. Quello che facciamo ora, è portare idee attraverso l’associazione mantello di chi soffre di malattie rare, ProRaris. Il nostro appello è di far sedere attorno a un tavolo tutti gli attori, comprese le associazioni di pazienti, al fine di trovare soluzioni che eliminino la disparità di trattamento. Si potrebbero ad esempio introdurre dei criteri standardizzati di valutazione per le malattie rare, oppure costituire una commissione d’arbitraggio super partes che emetta decisioni univoche non basate caso per caso. Un altro auspicio è che l’Ufficio federale della sanità pubblica (l’UFSP) si faccia più attivo in quest’ambito. Nella questione Scenesse ci siamo sentiti abbandonati e abbiamo avuto l’impressione che della vicenda l’UFSP se ne sia lavato le mani. Alla nostra richiesta d’aiuto ci è stato detto di adire alle vie legali per far valere le nostre ragioni. Una risposta d’ufficio e secondo noi cinica visti la durata e i costi che comportano i procedimenti giudiziari. Lara per esempio è riuscita a sopportarli solo grazie a un benefattore».
TRA SCIENZA E LEGGENDA

La protoporfiria eritropoietica (EPP) è una malattia del metabolismo dell’eme (una componente essenziale dell’emoglobina), caratterizzata dall’accumulo di protoporfirina nel sangue, negli eritrociti e nei tessuti, nonché da sintomi cutanei di fotosensibilità. Oltre al dover evitare la luce, essendo la protoporfirina una molecola escreta dal fegato, i pazienti con EPP sono a rischio di patologie epatiche croniche e acute.
Un mito sgradito
Il mito dei vampiri potrebbe essere scaturito dai malati di porfiria. Involontariamente, va da sé. In particolare chi soffre di CEP, la più orribile fra le porfirie che porta a ustioni e mutilazioni, deve evitare la luce del sole, è anemico e può avere bisogno di trasfusioni di sangue. In passato queste non erano sempre disponibili e a volte si ovviava con l’ingestione di sangue animale. Tutti elementi che nell’antichità potrebbero aver dato adito alle leggende. Ma chi soffre di porfiria, in tutto questo oggi si ritrova poco: «Scordati la visione romantica del vampiro», ha detto Lara. «Queste malattie sono uno schifo».
Il piccolo vantaggio
Almeno un piccolo vantaggio, nel soffrire di EPP, c’è. Spiega Lara: «Avendo dovuto evitare il sole per oltre vent’anni, la mia pelle è rimasta molto liscia e (per ora) senza rughe, quindi sembro più giovane». Una giovinezza che, sino all’arrivo dello Scenesse, era destinata giocoforza a restare nella penombra.