In Siria l’ultimo fallimento delle «Primavere arabe»

Stefano Maria Torelli, ricercatore dell’Agenzia europea per l’asilo (EUAA), si occupa da anni di Medio Oriente, argomento sui cui ha scritto numerosi saggi (l’ultimo, ripubblicato da Mondadori nel 2021, è intitolato Kurdistan, la nazione invisibile). Lo studioso italiano, che specifica di parlare a titolo personale e non nella veste di collaboratore della Commissione di Bruxelles, analizza con il CdT quanto sta accadendo in Siria. E inizia con una riflessione sulle cosiddette «Primavere arabe», i movimenti che, nel 2011, sembravano poter scuotere dalle fondamenta alcuni Paesi del Nordafrica e del quadrante mediorientale, compresa proprio la Siria.
«Le primavere arabe sono sembrate l’inizio di una stagione di cambiamento positivo, anche di rinascita, di autodeterminazione delle popolazioni di Paesi quali la Tunisia, l’Egitto, la Libia, lo Yemen e la stessa Siria. Parliamo di rivolte più o meno diffuse e, all’inizio, anche più o meno pacifiche. Movimenti che, in alcuni casi, hanno prodotto anche un repentino cambio di regime. Soprattutto in Tunisia, era stato avviato un processo di democratizzazione con lo scioglimento del Partito unico, l’inclusione di tutte le forze critiche nel processo politico, comprese quelle che prima erano state messe al bando, e l’indizione di elezioni libere e democratiche».
Un processo, ricorda Torelli, quasi ovunque poi sfociato in una «restaurazione, in un ritorno - di fatto - di regimi di stampo più o meno militare, sicuramente autocratici, molto simili a quelli spodestati nel 2011. In alcuni casi, in verità, si è andati pure oltre: penso alla Libia, allo Yemen e alla stessa Siria, dove gli scontri sono sfociati in guerre civili sanguinosissime».
Una stagione che sembrava di grande speranza, di promesse di democrazia, ha nei fatti causato «un’ondata di destabilizzazione in tutta l’area di cui oggi vediamo le conseguenze - dice ancora Torelli -. Sicuramente, con il senno di poi, qualcosa è cambiato, ma non per il meglio. Probabilmente, nessuno avrebbe potuto aspettarsi che dalla speranza di un futuro migliore si arrivasse a una situazione praticamente opposta».
Questo significa forse che in quei Paesi l’islam politico, come sostengono alcuni, è irriformabile, impermeabile cioè alla democrazia parlamentare, liberale? «Difficile dirlo - risponde lo studioso italiano - personalmente, tendo a non sposare la tesi secondo cui, per natura, ci siano aree del mondo o popolazioni poco compatibili con i processi democratici. Il Medio Oriente, da sempre, oltre ad avere chiaramente molti problemi irrisolti intrinseci, ha sofferto ingerenze sia internazionali sia regionali. Ingerenze che hanno destabilizzato i Paesi dell’area. Pensiamo alla vulgata sul ruolo del dittatore che garantisce un minimo di stabilità ed è da preferire ad altre situazioni, quali l’affermazione del fondamentalismo politico-religioso».
Quello che oggi sta accadendo in Siria è quindi il risultato di un insieme di cause, compresa la lotta per l’egemonia regionale tra Turchia e Iran, l’ingerenza dell’Arabia Saudita, le scelte di Israele. «Il Medio Oriente paga molto il fatto di essere da sempre un ring su cui combattono molti attori - dice Torelli -. Questo sicuramente non aiuta alcun processo di democratizzazione e porta instabilità».
A Damasco la dinastia familiare degli Assad ha fatto da «perno all’influenza di Teheran - spiega ancora Torelli -. L’Iran è uno dei Paesi che ambiscono da sempre a un’egemonia politico-culturale in Medio Oriente con il cosiddetto asse sciita. La proiezione iraniana nell’area non sarebbe mai stata possibile senza il regime degli al-Assad. Non va dimenticato che la Siria, anche geograficamente, ha una posizione centrale, uno sbocco sul Mediterraneo e confina con Israele. È, quindi, strategica. Non solo: in Siria, la Russia perseguiva l’obiettivo di controbilanciare l’influenza statunitense nell’area, ed è anche per questo che durante la Guerra fredda il Paese era definito la Cuba del Medio Oriente, un vero e proprio satellite di Mosca».
Il crollo del regime di Damasco, peraltro, è diretta conseguenza dei mutati equilibri geopolitici, sconvolti dalla guerra in Ucraina e dal conflitto di Israele contro Hezbollah, Hamas e contro l’Iran. «Su questo, non c’è alcun dubbio - dice Torelli -. Nel momento in cui i tre alleati fondamentali del regime di Assad, per un motivo o per l’altro, si sono dovuti ritirare, il dittatore siriano non ha avuto scampo. Hezbollah garantiva l’invio di molti miliziani ma è stata totalmente decapitata da Israele. L’Iran è molto indebolito politicamente dallo scontro con Tel Aviv, mentre la Russia da quasi tre anni è impantanata in un conflitto che, secondo i piani originari, sarebbe dovuto durare tre giorni, il tempo di a prendere la capitale Kiev e deporre il presidente Volodymyr Zelensky. Sappiamo tutti com’è andata: Mosca è talmente in difficoltà da aver avuto bisogno di importare soldati da Stati alleati quali la Corea del Nord o lo Yemen».
Un’ultima riflessione Torelli la dedica alla figura di Abu Mohammad al-Jolani, l’ex terrorista di Al Qaeda che ha parlato di «vittoria islamica» a proposito della caduta di al-Assad. Chi è, veramente, al-Jolani? E siamo di fronte a un nuovo scenario afghano, una situazione in cui dopo una prima fase di apparente apertura sarà imposto, con la forza, un modello politico fondamentalista? «Al-Jolani è un combattente salafita jihadista, già affiliato prima ad Al Qaeda e poi al cosiddetto Stato islamico di al-Baghdadi, l’ISIS, da cui si è staccato dopo aver avuto una sorta di evoluzione di tipo nazionalista - dice Torelli -. È difficile immaginare quale possa essere la sua evoluzione. Lui, adesso, tenta di tranquillizzare tutti: ha più volte dichiarato, ad esempio, che le minoranze religiose, tra cui i cristiani, non devono preoccuparsi perché la libertà di culto continuerà ad essere garantita e ha detto espressamente di non essere interessato ad azioni terroristiche contro l’Occidente. Ai russi e agli iraniani ha detto di non considerarli nemici, ma di averli combattuti soltanto in quanto appoggiavano al-Assad. L’aggettivo che gira di più in questi giorni, a proposito di al-Jolani, è pragmatico. Il personaggio, adesso, vuole sicuramente presentarsi in questo modo. Ma penso che, nello stesso tempo, difficilmente possa abbandonare al 100% la sua agenda islamista. Dobbiamo aspettare. Per il momento è chiaro che il suo sforzo è interamente politico-militare. È nella fase della presa del potere. Dopo, quando dovrà mantenerlo, capiremo meglio chi sia veramente e come voglia agire».