L'intervista

«India, l’insicurezza ai confini un pretesto per le deportazioni»

Satendra Kumar è antropologo sociale e professore ospite all’Università di Zurigo - Lo abbiamo intervistato in merito alle tensioni tra India e Pakistan
© AP/Reza Saifullah
15.07.2025 22:00

In seguito alle tensioni esplose lo scorso maggio con il Pakistan, in molti stati dell’India settentrionale stanno emergendo testimonianze di deportazioni sistematiche a danno delle minoranze musulmane nel Paese. Il fenomeno, però, non è nuovo, e mette in luce complesse dinamiche regionali radicate nel passato.

Professor Kumar, negli ultimi due mesi l’India è tornata sotto lo scrutinio della comunità internazionale e deve ora rispondere di gravi accuse. Ci può raccontare cosa sta succedendo?
«In seguito all’attentato di Pahalgam e al seguente conflitto armato tra India e Pakistan, sono comparsi numerosi resoconti, sia sui media locali ma anche internazionali, e sono state mosse accuse da parte di diverse organizzazioni umanitarie, tra cui “Human Rights Watch” (ndr. una tra le più rilevanti associazioni per la difesa dei diritti umani), che denunciano sistematiche deportazioni della popolazione musulmana presente sul territorio indiano. Nello specifico, si tratta di persone provenienti dal Bangladesh e i Rohingya, un gruppo sempre di fede islamica ma originario del Myanmar. Secondo queste fonti, oltre 2.000 cittadini sono stati espulsi negli ultimi due mesi e altre 2.000 persone si presume abbiano attraversato il confine volontariamente, spinte dalla paura di essere detenute».

Come ha risposto il governo indiano a queste accuse?
«Sebbene il governo non abbia ufficialmente dichiarato una campagna di deportazione di massa, afferma di aver intrapreso sforzi per identificare e allontanare i migranti illegali, il cui numero stimato varia da 20 a 50 milioni. È anche stato depositato un contenzioso pubblico alla Corte suprema indiana, ma il governo ha negato le accuse, affermando che queste persone erano entrate nel Paese illegalmente, e che erano state riconsegnate alle autorità dei rispettivi Stati. Rimane però difficile, per la natura poco organizzata della burocrazia indiana, verificare chi non detenga i documenti perchè immigrato illegalmente e chi invece non è mai riusciuto a ottenerli».

In che modo questi eventi si collegano alle tensioni di questa primavera?
«Il lancio dell’operazione Sindoor è seguito all’incidente di Pahalgam, l’attacco terroristico avvenuto nel Kashmir indiano lo scorso 22 aprile e rivendicato da un gruppo islamista indipendentista. Usato come pretesto, questo episodio ha permesso al Bharatiya Janata Party (BJP), il partito di maggioranza del governo, di nazionalizzare con successo la questione dell’immigrazione illegale, trasformandola da una preoccupazione regionale in un simbolo di insicurezza delle frontiere, invasione culturale e minaccia islamica. Le rimostranze localizzate nel Nord-Est hanno così acquisito una dimensione nazionale, allineandosi alla narrativa pan-indiana del partito sul vittimismo indù e sul terrorismo islamico. La capacità del partito di nazionalizzare queste preoccupazioni – collegando le paure locali a narrazioni più ampie di sicurezza e diluizione culturale – gli ha permesso di esercitare un’influenza ideologica in queste regioni di confine anche senza un potere legislativo dominante».

È la prima volta che l’India esegue deportazioni così sistematizzate?
«No, le deportazioni delle minoranze musulmane fanno parte di una storia politica molto più lunga. Secondo i dati ufficiali, il governo centrale guidato dal BJP ha espulso circa 1.800 cittadini da quando è salito al potere nel 2014. È interessante notare però, che durante il mandato decennale del governo dell’Alleanza Progressista Unita (UPA) tra il 2004 e il 2014 sono state oltre 82.000 le persone espulse. Questa sorprendente disparità complica qualsiasi lettura semplicistica delle azioni dell’attuale governo e suggerisce invece una continuità nelle pratiche statali volte a gestire la migrazione irregolare, che trascende l’orientamento politico».

Anche in passato la comunità internazionale si è mobilitata in tutela della minoranza islamica?
«Non direi. Ci sono state denunce minori in passato, ma mai della magnitudo che osserviamo oggi. Il clamore attuale va letto nel contesto politico internazionale, in cui la narrativa della migrazione come minaccia all’identità nazionale, alla sicurezza e alla sovranità economica è stata già portata all’attenzione dell’opinione pubblica, sia in Europa che negli Stati Uniti. Le persone, quindi, si interessano perché sono già sensibilizzate sul tema, che è molto caldo nel dibattito pubblico».

Il problema dell’immigrazione irregolare è dunque una questione di lungo corso per questa regione: come si è arrivati ad una tale «fluidità» dei confini?
«Quello che oggi si chiama Bangladesh, un tempo era il Bengala unito, diviso dall’Impero britannico prima nel 1905 e poi definitivamente nel 1947. Nacquero così il Bengala orientale, oggi Bangladesh, e il Bengala occidentale, ora uno Stato dell’India. I profondi legami socio-economici tra le comunità di confine hanno continuato a facilitare la migrazione transfrontaliera, sia volontaria che involontaria: i confini in questa regione sono quindi sempre rimasti “porosi”. In assenza di un robusto sistema di tracciamento biometrico e considerato l’enorme volume di transiti informali quotidiani della frontiera, gli sforzi di deportazione effettuati negli anni dallo Stato sono spesso stati aggirati».

Bangladesh e Myanmar, i presunti Stati di appartenenza di queste popolazioni, che ruolo giocano all’interno di questa dinamica regionale?
«Il grave problema è che molte volte, queste persone non sono riconosciute nemmeno dai governi dei loro Stati di presunta appartenenza. È una situazione molto tragica: sono apolidi, vengono respinti da entrambe le parti come se non appartenessero a nessun luogo, bloccati in una spirale di migrazione circolare».

«La Svizzera dell’India»: così era conosciuta la cittadina di Pahalgam, situata nella regione himalayana all’estremo nord del Paese. Dal 22 aprile scorso, tuttavia, l’immagine idilliaca di montagne e pascoli verdi è stata irrimediabilmente stravolta. La rinomata località turistica è stata infatti teatro di un attentato terroristico contro un gruppo di visitatori: uomini in tenuta mimetica hanno aperto il fuoco sulla folla, uccidendo 26 civili. L’attacco è stato immediatamente rivendicato dal Fronte di Resistenza, considerato una diramazione del movimento indipendentista islamista Lashkar-e-Taiba, già attivo nella zona. L’episodio ha innescato un’autentica «caccia alle streghe», con vaste operazioni antiterrorismo volte a individuare i responsabili. Il clima è precipitato rapidamente e, il 7 maggio, l’India ha lanciato l’operazione militare «Sindoor» contro il Pakistan, con l’intento di colpire le cellule ritenute responsabili dell’attacco compiuto due settimane prima. Il cessate il fuoco è stato raggiunto quattro giorni più tardi, il 10 maggio. La vicenda si colloca in un contesto di tensioni radicate: la valle del Kashmir, dove sorge Pahalgam, rappresenta l’unica regione a maggioranza musulmana dell’India ed è al centro di una contesa decennale con il Pakistan. I gruppi ribelli locali rivendicano l’indipendenza o l’annessione al Pakistan, che controlla una porzione minore del territorio ma, come Nuova Delhi, reclama l’intera area. L’attentato di aprile non è un episodio isolato: negli ultimi anni la regione ha già conosciuto attacchi sanguinosi, tra cui quelli del 2019 e del 2000, in cui morirono rispettivamente 30 e 40 persone. 
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