Inizia un Ramadan di guerra: «La tensione in città è palpabile»

«Habibi, vieni, il caffè è pronto, l’ultimo prima del digiuno». Mohammed non si abitua all’idea che io il caffè lo prendo soltanto fatto con la moka. Il suo però, con il cardamomo, non si può rifiutare: in un bugigattolo verde, appena entrati sulla Spianata delle Moschee, lui ha il suo museo delle meraviglie, un po’ da Eta Beta, ci trovi tutto. Ufficialmente, lui è lì per controllare che le donne e gli uomini che arrivano sul terzo luogo più sacro dell’Islam, siano vestiti decentemente. Così tutto intorno ci sono i cesti degli abiti che danno in prestito a chi arriva con i bermuda o le donne che mostrano qualche centimetro di pelle. In questo periodo, da oramai quasi sei mesi, non ci sono turisti, quindi non c’è il pericolo che qualcuno sia vestito in maniera non opportuna. E così dal suo bugigattolo verde escono dolciumi, caffè con il cardamomo, te e altro, che dovranno finire prima di domani. Potranno restare le mappe che da poco hanno realizzato sulla Spianata, per raccontare la versione islamica del luogo. A ricordare che il sacro lì è oggetto conteso e che può scatenare violenza, ci pensano gli agenti israeliani, beatamente seduti a pochi metri. Non è raro che si prenda il caffè insieme.
Non in questo periodo sacro e non dopo il sette ottobre. «Siamo tutti vittime degli eventi – dice Mohammed, versandomi il caffè – che sono più grandi di noi. Una scossa a questi ci voleva, ci stavano trattando troppo male. Da quando c’è questo governo poi non ne parliamo. Quelli (gli ebrei, soprattutto coloni di destra, ndr) che salgono qui sono aumentati, ci sfidano. E a qualcuno salta la testa».
Il problema è che stamattina comincia il Ramadan, migliaia e migliaia di fedeli arriveranno sulla Spianata ogni giorno e tra loro c’è sempre qualcuno a cui di pregare non interessa nulla, ma va allo scontro fisico con gli agenti. Sarebbero vietati slogan, fuochi di artificio e bandiere, ma puntualmente appaiono. E si ripete lo stesso rituale: gli agenti israeliani irrompono, si scontrano con i fedeli musulmani, mostrano “armi” ritrovate, operano arresti, ci sono feriti. «Poi con il Ramadan – continua Mohammed – senza mangiare e bere gli animi di qualcuno si infiammano più facilmente, non vivono il mese in maniera spirituale». Ma tu non hai paura? «Certo, più volte mi sono trovato in mezzo agli scontri. Come sai ho un altro lavoro, sono un insegnante, ma è mio dovere essere volontario qui e dare una mano. Un Ramadan di guerra non è una bella cosa ma Israele deve capire che bisogna cambiare. A quanto pare, solo con la forza se ne rendono conto».
Mohammed non lo dice, ma l’azione di Hamas del sette ottobre è ben vista da tutti. Una azione di resistenza la chiamano. Dopotutto il gruppo che controlla Gaza sapeva di scatenare l’inferno con Israele, di portarselo appresso in una spirale immensa di morte e devastazione. Non gli interessa sacrificare i civili, l’intenzione è di dare una lezione al paese ebraico e mostrare ai palestinesi di essere l’unico «partito» che si interessa delle loro sorti. Cosa che nei giovani ha molta presa.
Awan è sempre lì che mi aspetta all’ingresso della Spianata vicino alla porta dei Leoni. Come ogni volta che c’è un gruppo o una delegazione ufficiale che, avendo chiesto in anticipo, può anche visitare sia la Moschea di Al Aqsa che la Cupola della Roccia dall’interno, cosa normalmente vietata ai non musulmani.
«Noi siamo pronti – mi dice – ma temo che sarà un mese ancora più lungo. Ho paura che questo clima di tensione, per la guerra e l’occupazione, scateni scontri qui. Ricordi? Ci ho già rimesso l’osso di un braccio, quando mi hanno buttato a terra. Spero che non succeda niente, ma purtroppo non ho un buon presentimento».
Da tempo Hamas ha chiamato a raccolta i musulmani a manifestare durante il Ramadan contro Israele. Il gran Muftì di Gerusalemme ha visto ieri sera la luna piena e ha decretato quindi da stamattina l’inizio del Ramadan; il primo iftar, cena rituale, questa sera. Nei tour all’interno della Moschea di Al Aqsa, oltre alle colonne di marmo che donò Mussolini, Awan mostra sempre le vetrate distrutte dai colpi israeliani durante gli scontri. Come trofei, a imperitura memoria delle violenze. Non temi che possa succedere anche peggio? «Siamo pronti – mi dice – questa è casa nostra e la difenderemo fino alla fine. Siano disposti a tutto. Israele deve capire che così non si può andare avanti. Noi vogliamo solo avere il nostro spazio, le nostre preghiere, il nostro luogo. E questo lo è. Nostro, non loro».
Sembra una zona di guerra, eppure è la Città Vecchia di Gerusalemme. La porta dei Leoni, che dà sul Monte degli Ulivi e quella di Damasco, la più imponente delle sette aperte della parte vecchia della Città Santa, sembrano fortini, sono fortificate. Dappertutto agenti, barriere metalliche, controlli. Ieri era l’ultimo giorno che si poteva salire sulla Spianata. Da oggi, complice l’inizio del mese sacro, i non musulmani non potranno più andarci. Il Ramadan di guerra nella città vecchia è palpabile. Ci sono le luci, ci si scambia auguri, ci si invita a casa, ma si parla con circospezione, si ha paura, ci si guarda intorno, una parola di troppo e si viene arrestati. Il numero degli agenti in divisa è maggiore. Turisti non ce ne sono, i negozi aperti sono per i locali. Soprattutto i negozi di dolci e quelli di giocattoli. Sulle cui bancarelle e mensole fanno bella mostra le armi giocattolo, che rappresentano la maggioranza dei balocchi.
Il chioschetto di Hidmi è un punto fermo per il cibo da strada a Gerusalemme. I suoi falafel sono i migliori della città vecchia. Appena dopo la porta di Damasco, è un punto fondamentale nel viaggio a Gerusalemme. Come ogni mese di Ramadan, il chioschetto non cucina le polpette di ceci fritte ma prepara quantità di qatayef, il dolce tipico del mese sacro, delle mezzelune ripiene con le noci. «Che vuoi che ti dica, habibi, è un disastro. Qua siamo alla mercé di pazzi, perché guarda che Netanyahu e quelli di Hamas hanno la stessa testa. Sono pazzi allo stesso modo. A loro di noi non interessa nulla, interessa solo di loro. Paghiamo tutti le conseguenze, a Gaza di più. Qui c’era sempre gente, non vediamo un turista da mesi. Abbiamo famiglie da mandare avanti. Noi non abbiamo lavoro, a Gaza hanno perso tutto, a cominciare dalla vita, i sopravvissuti non hanno cibo, e i capi o stanno nelle regge a Doha o nelle ville qui sul mare. Non ci resta che sperare che questa follia finisca presto. Per il bene di tutti». «Ramadan Kareem» mi augura, pur sapendo che non sono io musulmano, porgendomi i miei qatayef che mangerò insieme alla pastiera, accompagnati dal caffè fatto con al moka.