«Io, la kamikaze islamista sopravvissuta alla strage»

La sua storia è incredibile: arruolata contro la propria volontà dai terroristi islamici di Boko Haram per diventare una kamikaze, è sopravvissuta alle esplosioni perdendo le gambe. Siamo andati a trovarla in Ciad. Ecco il racconto di quella visita.
Il capitano Affeni dell’esercito ciadiano chiama i suoi uomini a rapporto e ordina loro di prepararsi per un’azione di guerra. Due minuti di tempo per la vestizione: mimetiche, anfibi, giberne a tracolla, volti coperti con turbanti che lasciano scorgere soltanto occhi profondi a scimitarra e caricatori inseriti nei kalashnikov. «Moral! Moral! Moral!» (Morale! Morale! Morale!) urlano i militari e il grido echeggia come un peana di guerra nella vastità del Sahel. I soldati salgono sulle piroghe e attraversano il lago Ciad, feudo dell’ISIS in terra d’Africa, scrutando attraverso la scanalatura del mirino i canneti e le paludi.
L’imbarcazione naviga in direzione dell’isola di Gomirom Domou dove vive Halima Adama, una donna di 20 anni, sola terrorista di cui si ha notizia ad essere sopravvissuta ad un’azione suicida durante la quale avrebbe dovuto morire da martire compiendo una strage. Incontrarla e conoscere la sua storia significa poter guardare da una prospettiva unica il mondo del terrorismo: capire cosa induce uomini e donne a votarsi alla morte altrui e propria divenendo così zelanti e obbedienti esecutori di massacri. Durante il viaggio sulle placide acque del lago il capitano dell’esercito regolare spiega: «Qua è molto pericoloso. Questa zona è in mano ai terroristi di Boko Haram, si nascondono sulle isole e poi conducono azioni e scorribande saccheggiando i villaggi e massacrando la popolazione». Dopo ore, la piccola barca a motore affonda la prua in uno strato di fanghiglia. Ecco l’isola dove vive la donna che oggi tutti conoscono come: «La kamikaze». Halima è seduta su una stuoia di rafia all’interno di una capanna fatta di frasche. Per terra, accanto a lei, le protesi delle sue gambe preannunciano il racconto. «Io sono originaria di quest’isola e a dodici anni sono stata data in sposa a un uomo che faceva il pescatore e ho vissuto con lui sino a quando avevo sedici anni».

Poi cos’è successo?
«Un giorno, era il 2016, mio marito mi disse che mi avrebbe condotta su un’altra isola dove la pesca era più redditizia. Partimmo in barca ma, anziché portarmi in questo posto dove avrebbe dovuto dedicarsi alla pesca, mi portò dai combattenti di Boko Haram. Lui mi ha ingannata, io non lo sapevo che lui voleva arruolarsi e diventare uno jihadista e non sapevo neppure che voleva coinvolgere anche me in questa sua scelta».
Dopo che è stata condotta dai terroristi cos’è avvenuto?
«Mio marito ha fatto l’addestramento militare ed è diventato un soldato e ha preso parte ai combattimenti. Io invece sono stata mandata a vivere con altre donne e non facevamo altro che cucinare e studiare il Corano, per tutto il giorno».
Può raccontare in che modo è stata scelta per diventare una kamikaze?
«È stato mio marito a propormi ai capi per farmi fare un’azione suicida. Un giorno venne da me e mi disse che ero stata scelta per diventare una kamikaze. Mi condusse dalle autorità e loro mi spiegarono che avrei esaudito il volere di Allah e che uccidendo i miscredenti sarei andata in Paradiso. Io ero terrorizzata, ma non avevo scelta. Boko Haram non ti dà possibilità di scegliere: o esegui gli ordini o ti uccidono. Per alcuni giorni mi prepararono indottrinandomi e drogandomi, mi facevano delle punture e dicevano che servivano a non farmi avere paura, poi mi diedero la cintura esplosiva e mi dissero di andare a compiere l’azione insieme ad altri attentatori».

E cos’è accaduto?
«Con un gruppo di altri terroristi sono partita per compiere una strage nel mercato di Bol. Abbiamo marciato per tre giorni e per tre notti poi, però, quando eravamo a circa tre chilometri dal luogo designato per l’azione, siamo stati intercettati dai comitati di autodifesa. Io non mi ero legata sul corpo la cintura esplosiva, l’avevo lasciata nella borsa, avevo troppa paura. Quando i vigilantes ci hanno scoperti gli altri terroristi che erano con me hanno subito attivato gli esplosivi. Mi ricordo le esplosioni, poi più nulla. Mi sono svegliata ore dopo in ospedale e senza gambe. So di essere stata l’unica a salvarsi».
Ha più avuto notizie di suo marito?
«Di mio marito conservo solo una foto sul cellulare ma non voglio più sapere nulla di lui dopo tutto quello che mi ha fatto vivere. Oggi io sono sola e non troverò mai nessun’altra persona che mi sposerà. Chi vuole prendere in moglie una senza gambe e con una storia alle spalle come la mia? Io non potrò mai perdonare né mio marito né Boko Haram per quello che mi hanno fatto. Mi hanno obbligata a diventare una kamikaze, volevano che facessi del male e uccidessi la mia gente. Come potrò dimenticare? Come potrò ritornare ad avere una vita normale?».
Quale messaggio vuole inviare alle autorità affinché nessun altro debba vivere quello che ha vissuto?
«Io dico che occorre occuparsi di più dell’educazione dei giovani. Più scuole, più ragazzi istruiti. È solo vincendo l’ignoranza che si colpisce Boko Haram».
IL REPORTAGE «Qui c’è una bambina che ha visto sgozzare suo padre»

Sabbia, carcasse di bovini e villaggi abbandonati punteggiano il deserto. Il viaggio attraverso le piste sahariane che conducono da N’Djamena – la capitale del Ciad – a Bol, in riva al lago Ciad, è un percorso obbligato per addentrarsi nel Sahel e conoscere una delle peggiori crisi umanitarie della nostra contemporaneità. Due fattori – la guerra del terrore di Boko Haram e la desertificazione del lago – si sono uniti in un sodalizio di distruzione provocando una tragedia, nel bacino del lago, che oggi, stando ai dati dell’OCHA (l’Ufficio della Nazioni Unite per gli affari umanitari), ha causato 2,3 milioni di profughi, mentre sono 10 i milioni di persone che vivono nel bisogno e 500.000 i bambini che soffrono di malnutrizione. La superficie del lago Ciad si è ridotta del 90% rispetto agli anni Sessanta e la guerra dei jihadisti di Abubakar Shekau ha fatto di questa terra una roccaforte del terrore. Quattro i Paesi toccati: Nigeria, Niger, Camerun e Ciad. Ed è in quest’ultimo che la crisi si esibisce in tutta la sua spietatezza.
Nel Ciad, 183esimo Paese su 187 nell’indice di sviluppo umano, dove l’analfabetismo va oltre il 50% e la speranza di vita supera a fatica i 53 anni, lo jihadismo e l’avanzata del Sahara stanno falcidiando la popolazione. «Non possiamo considerare lo jihadismo e la desertificazione come due elementi separati, senza alcun legame. Non è così, anzi, l’uno alimenta l’altro». A parlare e spiegare quanto sta avvenendo nella regione rivierasca è Ahmad Yacoub, fondatore e presidente del Centro di studi per lo sviluppo e la prevenzione dell’estremismo, il primo istituto nato nel Sahel con l’obiettivo di fermare il proselitismo islamista e aiutare i fuoriusciti dall’organizzazione jihadista a ricominciare una nuova vita. «Oggi la jihad attira a sé molti adepti approfittando della situazione di miseria assoluta. La gente lungo le rive del lago sta morendo di fame e i ribelli, con promesse di cibo, di soldi e di gloria eterna, ingrossano le proprie fila».

Quanto dichiarato dal presidente, è visibile nella città di Bol, il principale centro urbano sulle sponde del lago Ciad. Una strada sabbiosa percorre il paese, da un lato baracche, dall’altro, la moschea e la casa dell’imam. Poco più avanti, l’ospedale. Ed è nel nosocomio che la crisi incomincia a manifestarsi con tutta la sua ferocia. Ammalati di AIDS terminali, feriti di guerra con le braccia in necrosi, bambini affetti dalla tubercolosi e con il corpo infestato di parassiti giacciono in ogni dove, nei padiglioni impregnati dell’odore di sangue e urina e in cortile tra la polvere e le temperature che raggiungono i 50 gradi. Hanno tutti occhi incendiati dalla paura e dal furore della sofferenza. Alcune donne stringono i lembi dei vestiti con i denti, un’altra agita un piccolo ventaglio per far aria alla figlia stesa per terra e immobile. Nessuno grida, nessuno piange, è gente forgiata in quell’orgoglio degli ultimi che impone di affidare le urla del proprio dolore al silenzio.
«Qui manca tutto, questo è l’unico ospedale dell’intera regione e siamo solo in tre medici a dover far fronte a una pluralità di problemi». A parlare è Mohamet Hassan, il direttore generale che poi aggiunge: «Il terrorismo di Boko Haram ha portato problematiche che prima non c’erano. Abbiamo ricoverato una bambina che ha visto sgozzare suo padre. Poi è stata stuprata dai miliziani islamisti e ha contratto l’HIV. Ha ingerito un chiodo di 12 centimetri per suicidarsi. L’ho operata e adesso è sotto trattamento. Questa è la nostra quotidianità. Vi è chiaro?».
Per capire appieno l’orrore occorre incontrare anche i carnefici oltreché le vittime. Osservarli, ascoltarli e attraverso le loro parole conoscere il mondo di Boko Haram. Abdoullaye Tidjani è uno di loro, un ex soldato del califfato d’Africa. All’interno di una madrassa, seduto al buio, su un tappeto, inizia il suo racconto. «Io sono nigeriano e facevo il commerciante. Ero al lavoro quando i terroristi sono arrivati e hanno costretto me ed altri uomini a diventare dei combattenti. Mi hanno portato in un campo d’addestramento e subito è iniziata la formazione militare. Terminato l’addestramento mi hanno mandato in battaglia. Prima di andare ad attaccare i villaggi o le postazioni dei militari ci facevano pregare, gli imam ci dicevano di uccidere perché era il volere di Allah». L’ex terrorista ha trascorso tre anni della sua vita in prima linea nell’assaltare villaggi e scontrarsi contro l’esercito regolare: «Non ce la facevo più a vedere gente uccisa senza ragione. È arrivato un giorno in cui mi sono domandato: perché? E da quel momento non ho desiderato altro che fuggire. Una notte, approfittando di una battaglia e dell’oscurità sono scappato. Vorrei ritornare alla mia vita di sempre, a prima di tutto questo, ma come si può tornare indietro dopo tanto orrore?».

DA SAPERE
Ex colonia francese, il Ciad è divenuto indipendente nel 1960 e da allora la sua storia è stata caratterizzata da Governi autocratici e numerose guerre (attuale presidente è Idriss Déby, in carica dal 1990 quando prese il potere attraverso un golpe militare). Il Paese è uno dei più poveri al mondo: l’80% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà; il 9% ha accesso ai servizi sanitari adeguati, solo il 48% usufruisce di acqua potabile e il tasso di mortalità infantile è tra i più alti del pianeta. Una delle principali problematiche che sta affrontando è la crisi che ha colpito il bacino del lago Ciad, provocata da due fattori: la desertificazione del lago e il terrorismo islamista di Boko Haram. Stando ai dati dell’OCHA (l’Ufficio della Nazioni Unite per gli affari umanitari), la crisi ha causato oltre 2,3 milioni di profughi, 10 milioni di persone che vivono nel bisogno e 500.000 i bambini che soffrono di malnutrizione. Questa però non è la sola crisi che sta colpendo il Paese. Dall’estate del 2018, un nuovo focolaio di ribellione è divampato nella regione mineraria del Tibesti vicino al confine con la Libia. Senza contare che la nazione saheliana ospita cinquecento mila profughi provenienti per la maggior parte da Sudan, Repubblica Centrafricana, Nigeria e Repubblica democratica del Congo. Una situazione drammatica e delicata, destinata ad aggravarsi se si considera che l'ex colonia francese sta vivendo una forte crisi economica dovuta al crollo del prezzo del greggio e che l'esecutivo di N’djamena utilizza la maggior parte degli aiuti internazionali per la sicurezza e solo una minima parte per lo sviluppo.
IL CASO: Il lago arretra e il deserto avanza

È mattina a Bol, la luce dell’alba si riflette sulle acque del lago Ciad e guardando l’orizzonte con occhi socchiusi per proteggersi dal riflesso del sole si scorgono decine di piroghe. Un’imbarcazione sta per raggiungere la riva, un uomo in piedi, a poppa, fa leva su un vecchio ramo per orientare la chiatta, altri due traghettatori a prua pagaiano senza sosta e la vecchia barca scivola sul nastro d’argento dell’acqua come un rasoio. Decine di donne, contornate da veli color dell’iride, sbarcano sulla spiaggia con le proprie mercanzie da vendere al mercato del principale centro rivierasco. Provengono dalle isole del lago dove la desertificazione sta falcidiando la popolazione e infatti portano con sé gerle colme di rimasugli di sopravvivenza: poco pesce e pochissima carne, istantanea di una vita sotto sfratto del deserto. Per comprendere cos’è quindi la desertificazione nel bacino del lago Ciad, la cui superficie si è ridotta del 90% rispetto agli anni ‘60 del secolo scorso a causa del cambiamento climatico, della costruzione di dighe sui fiumi immissari e dell’aumento della popolazione, occorre salire su una delle vecchie piroghe, lasciarsi alle spalle la città di Bol per addentrarsi nell’arcipelago di isole che punteggiano il lago.
L’isola di Yiga è uno dei posti dove maggiormente è visibile l’arretramento delle acque. Alcune donne sono sedute sotto un piccolo albero, dei bambini dormono dentro una capanna, un’altra ragazzina beve da un bidone dell’acqua che poi travasa in una ciotola per darla al fratello più piccolo. Per sopravvivere al calore e al deserto la gente ha imparato a limitare al minimo e all’essenziale i propri sforzi. Alcuni ragazzini rincorrono un pallone e subito vengono rimproverati. Non c’è più tempo per nient’altro che non sia l’essenziale: nessun gioco, nessun piacere, nessuna concessione né alle ore sacre e neppure a quelle volgari può essere fatta. Con la temperatura che supera i 50 gradi, l’acqua che per essere bevuta deve essere fatta bollire e la terra che come prodotto dà unicamente sabbia, solo il necessario per sopravvivere è consentito.

«Io ho abbastanza anni per ricordarmi com’era prima che tutto questo disastro iniziasse. Il lago era popolato da tantissimi animali, e noi vivevamo di pesca e di agricoltura. Non ci puoi credere? Invece era così, tanto pesce e pesci grandi, numerosi, come mettevamo le reti in acqua queste subito si riempivano e poi vacche, capre, dromedari. Poi è iniziata la crisi e oggi non c’è più nulla. Questo è quello che abbiamo». Motoye Dougoumi, capo della comunità afferra una manciata di sabbia e la lascia scivolare nel pugno e prosegue: «Siamo 700 persone e non c’è niente. Una sola fontana d’acqua e per raggiungerla occorre fare chilometri. Le terre sono sempre meno e per questo scoppiano tensioni tra le diverse comunità. Se il Governo e la comunità internazionale non trovano al più presto una soluzione qui si verificherà una tragedia assoluta».

Un ulteriore ritratto della disperazione che strozza la popolazione è il volto dei fratelli Bokar e Aboukar Aboukarmi. Sono due pescatori e raccontano che il pesce è poco e quindi il costo è aumentato vertiginosamente. Spiegano che mancano i soldi per far riparare le reti e per aggiungere un rattoppo in più alle piroghe divorate dal tempo e dalla miseria. Poi, a bordo delle imbarcazioni, si dirigono a visionare le nasse e le reti che la sera prima hanno disposto a pochi metri dalla riva. Spingono le barche in acqua, poche pagaiate ed ecco che iniziano a controllare i frutti della pesca ed inclemente si manifesta la realtà: i loro occhi diventano terribilmente melanconici quando le mani callose sollevano le reti logore dove sono intrappolati solo una decina di piccoli pesci: troppo piccoli e troppo pochi per colmare pance che sono sempre più vuote e bocche sempre più affamate.