La testimonianza

«Io, l’ex bambino internato tra abusi e bagni nelle ortiche»

Nato fuori dal matrimonio 72 anni fa, Sergio Devecchi è cresciuto per anni dentro controversi istituti religiosi - Nel 2009 ha svelato al mondo il suo dramma e ora la sua storia è diventata un libro
Sul carro Bambini dell’istituto di Pura negli anni Cinquanta. Devecchi è il bambino dietro, sulla destra. (Foto zvg/Fondazione «Dio aiuta»)
Carlo Silini
09.05.2019 12:40

C’era una volta un bambino a cui avevano rubato l’infanzia. Appena nato era stato strappato dalle braccia della madre per essere messo in un istituto religioso dove era tenuto a chiamare mamma, papà, zio e zia degli «educatori» e dove le punizioni corporali erano all’ordine del giorno: schiaffi, bacchettate sulle mani, colpi di nocche sulla testa, bagni nelle ortiche. E abusi sessuali. È successo qui, tra Pura e Zizers, non troppi anni fa. Nel frattempo quel bambino è cresciuto, si è affermato professionalmente, ha avuto una sua famiglia e ha aspettato il giorno della pensione per rompere il silenzio e rivelare al mondo la propria storia. Quel bambino si chiama Sergio Devecchi e oggi ha 72 anni. Il libro che racconta le sue traversie, Infanzia rubata. La mia vita di bambino sottratto alla famiglia, Edizioni Casagrande, è stato tradotto in italiano e verrà presentato 21 maggio alle 20.30 al Teatro Sociale di Bellinzona. L’abbiamo intervistato.

Sergio Devecchi, la sua storia è racchiusa tra due fotografie: una scattata quando lei era piccolo, l’altra quando aveva 69 anni. Ce le può descrivere?

«Nella prima fotografia (sopra) potevo avere sette anni, non di più, non lo so di preciso. È stata scattata a Pura, nell’istituto, durante una visita di mia mamma o forse di mia nonna, non ricordo bene. Me l’ha regalata mia mamma quindici anni fa. Un paio di mesi dopo ho scoperto che questa fotografia era stata ritagliata da un’altra fotografia di famiglia nella quale c’erano anche mia nonna, mia zia le mie due sorellastre. E questo mi ha fatto molto male».

Perché?
«Perché mia mamma ha fatto ritagliare la mia sagoma dalla fotografia di famiglia per regalarmi una foto in cui io ero lì da solo. È molto simbolico: mi ritagliano dalla fotografia originale di famiglia e mi lasciano da solo in un’altra fotografia».

E la seconda immagine?

«È una foto di gruppo (sopra). Dopo tanti anni di silenzio mi ero messo in contatto con mia madre dicendole che era ora che mi raccontasse che cosa era veramente successo. Ci ha messo parecchio. Anni. Poi mi ha chiamato dicendo che era pronta a farlo. Sono andato a Melide e mi ha raccontato la sua versione dei fatti. Dopodiché le ho promesso di invitare tutti i famigliari a pranzo sempre a Melide. È in quella occasione che abbiamo scattato la fotografia. Rappresenta me fra persone che quasi non conoscevo. È stata la prima volta in vita mia in cui tutta la mia famiglia biologica si è riunita con me per pranzare insieme».

Ma lei non conosceva di fatto quasi nessuno di loro.
«Ci siamo ritrovati in un ristorante e sul tavolo davanti ad ogni posto c’era il nome di ognuno. Ripeto, non li conoscevo, tranne le mie sorelle e una zia. C’erano i biglietti con i nomi e la spiegazione di chi erano: cugini, zii...»

Nel 1947, quando sono nato io, se venivi al mondo da un padre sconosciuto e da una mamma che non era sposata, la cosa non era accettata dalla società

Tra la prima e la seconda fotografia è successo di tutto. Partiamo dall’inizio. Lei scrive: ero un «figlio illegittimo (...) nato in maniera illecita. Non ero certo un bambino da esibire nella Svizzera del dopoguerra, un Paese con una rigida moralità». Cosa succedeva a un bambino così?
«Nel 1947, quando sono nato io, se venivi al mondo da un padre sconosciuto e da una mamma che non era sposata, la cosa non era accettata dalla società. E così mia nonna, la chiesa e le autorità comunali e cantonali hanno deciso che fosse bene togliermi da mia mamma. Mi hanno portato via non tanto per castigare qualcuno, ma per ragioni morali. L’idea era che un bambino illegittimo non poteva stare in famiglia. È successo a me ed è successo a moltissimi altri. Tanti bambini sono stati forzatamente tolti alle mamme non sposate».

Lei ha subito molte sofferenze: lavoro minorile, punizioni assurde, abusi fisici e psicologici. Eppure, a leggere il suo libro, a farla soffrire di più era l’assenza di una famiglia. Lei però non è fra quanti dicono che la peggior famiglia è meglio del miglior collegio...
«No, in effetti non lo dico e non lo credo. Perché dopo la mia vita in istituto da bambino, sono diventato educatore e direttore di istituti. Ho conosciuto tutte e due le parti, se così si può dire. E ritengo giusto che un bambino possa crescere in un ambiente adeguato, buono, amorevole, anche se non è la famiglia. Il bambino ha bisogno di avere persone di fiducia, persone che gli vogliono bene. Se non sono la mamma o il papà possono essere anche degli educatori in un istituto. Sempre che l’istituto venga condotto in maniera professionale. In quel caso non si può certo dire che l’istituto sia peggio di una cattiva famiglia. Ci sono bimbi che non possono vivere in famiglia per mille ragioni e per loro servono alternative umane».

A Zizers (a cui si riferisce la foto sopra) le punizioni corporali erano praticamente all’ordine del giorno. Schiaffi, bacchettate sulle mani, colpi di nocche sulla testa. E bagni nelle ortiche. Come mai non vi ribellavate?
«Perché eravamo solo bambini. Non capivamo cosa succedeva e non avevamo alternative. Non sapevamo cos’era il mondo al di fuori dell’istituto. Credevamo che la nostra vita fosse il mondo normale. Non avevamo contatti con la società fuori. Per noi la punizione, le bacchettate e i bagni nelle ortiche erano una cosa normale. Inoltre eravamo educati in un’ottica religiosa molto severa. Se prendevamo uno schiaffo o una punizione corporale pensavamo che fosse Dio a volerlo. Ci sembrava giusto così. Solo quando sono uscito dall’istituto ho cominciato a capire l’ingiustizia di cui ero stato vittima. Ma nei 17 anni in cui ero dentro non l’avevo realizzato».

Da qualche anno è esplosa la questione degli abusi sessuali sui minori in vari istituti, anche svizzeri. Pure lei ne ha subiti. Mi pare di capire che li percepiva come uno dei tanti aspetti della sua condizione di bambino in istituto: a irritarla di più era la doppia morale dei suoi assistenti. O sbaglio?

Dovevo chiamare i miei educatori ‘zio’ o ‘zia’, ‘papà’ o ‘mamma’, come se fossero le figure di una famiglia normale. Erano molto religiosi, ma è chiaro che avevano una doppia morale

«Sì. Dovevo chiamare i miei educatori ‘zio’ o ‘zia’, ‘papà’ o ‘mamma’, come se fossero le figure di una famiglia normale. Erano molto religiosi, ma è chiaro che avevano una doppia morale. Quando erano soli con me facevano delle cose che quando erano in una situazione collettiva non facevano. Parlavano con due lingue. E anche questo, pensavo allora, era normale. Dev’essere così, mi dicevo. E poi, quando si è bambini, non si parla di abusi sessuali. Ci si sente in colpa. Se ne parla solo da adulti quando si può capire cosa è successo».

Anche l’abuso sessuale, quindi, non era distinguibile dagli altri abusi.
«No, un bambino non può distinguere. Un bambino pensa che deve essere così e basta. Una situazione tragica e va capita psicologicamente. Un bambino che viene abusato in primo luogo pensa che sia colpa sua».

Sotto: Devecchi, a destra, nella foto originale da cui era stata ritagliata la sua figura.

Spesso ha tentato la fuga dagli istituti dove era costretto a vivere, ma alla fine provava nostalgia per quegli ambienti oppressivi. Perché? Una sorta di sindrome di Stoccolma in cui le vittime si affezionano ai propri carnefici?
«Sì. Quando, dopo 11 anni di vita in istituto a Pura, mi hanno sradicato da lì da un giorno all’altro non conoscevo altre realtà. E ho sentito una forte nostalgia di un posto che non era senz’altro sano, ma era l’unica cosa che conoscevo. Ho avuto nostalgia di quella che, malgrado tutto, era stata la mia casa, la mia sicurezza. Anche se la sicurezza è stata messa duramente alla prova e la casa non era quella della mia famiglia, ma quella di gente che abusava di me e degli altri bambini».

Lei è stato ospitato in istituti fortemente religiosi e oggi è ateo. Cosa rimprovera alla visione religiosa del mondo?
«Non rimprovero nulla. Ogni persona deve decidere da sé a cosa vuole credere. Ma già quando ero bambino ho capito che questo non lo volevo. L’ingiustizia vissuta non aveva nulla a che fare con un Dio giusto. Quando sono uscito dall’istituto mi sono tolto dalla religione».

Il cattivo esempio dei credenti l’ha spinto a non credere?
«Esatto».

Sono molti gli episodi in cui si vede che il passato di bambino internato le è servito per interpretare meglio il suo ruolo di educatore di giovani disadattati. Ci può citare alcuni casi specifici?
«Anzitutto la nostalgia. Ho diretto istituti in Svizzera interna per ragazzi che venivano da tutto il Paese. Nei primi giorni questi ragazzi provano un forte senso di nostalgia, ma non lo dicono. Io lo sapevo e ne parlavo con loro. Mi chiedevano come facessi a saperlo. Rispondevo che lo sapevo e lo vedevo dalla loro faccia. In realtà lo sapevo perché l’ho provato io, perché so cosa vuol dire essere sradicati dal proprio contesto. E per loro era una consolazione sentire il direttore che li capiva. Lo stesso quando i ragazzi scappavano: quando tornavano non li punivo mai. Spiegavo anche ai miei collaboratori che se un ragazzo scappa non lo fa perché noi siamo cattivi, ma per molte altre ragioni, può essere una valvola per liberarsi di qualcosa».

Bisogna chiedersi e cercare di rispondere alla domanda: perché è successo? Come è successo, e soprattutto: come è stato possibile che sia successo e che sia successo proprio in Svizzera?

Per tutta la durata della sua vita lavorativa lei ha taciuto sul suo passato, poi l’outing. Come mai?
«Durante tutta la mia vita professionale e fino ai miei 62 anni non ho detto niente a nessuno. Anche da adulto mi sentivo sempre in colpa. Pensavo che dovevo aver fatto qualcosa di sbagliato per essere stato messo in istituto. È una cosa molto profonda nella mia coscienza. Poi, un anno prima di andare in pensione, c’era una mostra che girava per tutta la Svizzera, ‘Bambini in appalto’. La direttrice mi aveva chiesto come presidente dell’Associazione svizzera delle istituzioni di collaborare con lei per diffonderla. Nella mostra c’erano tante vittime che parlavano del loro destino».

Cosa ha provato?
«Ho capito che anch’io dovevo avere il coraggio di dire quello che mi era successo. Un anno dopo, quando la mostra aveva già fatto il giro della Svizzera, ho organizzato un congresso pieno di autorità e specialisti della socialità. E ho fatto il mio outing. A piccoli pezzi. Pochi. Ma l’ho fatto».

E ne è uscito un libro.
«Sì, ma quattro anni dopo, nel 2009. I media ne hanno parlato».

Scrivere il libro ha rimarginato o ha riaperto le ferite?
«Tutte e due le cose. Quando il libro è uscito per me è stata sia una grande soddisfazione, ma anche un grande dolore. La gente ha cominciato a parlare con me di tutto questo. Per 62 anni nessuno lo sapeva e nessuno ne parlava. Quando i media hanno raccontato la mia storia mi sono visto confrontato con l’esterno. Mi chiedevano come mai, cosa avevo vissuto, perché avevo taciuto, eccetera. Per me è stato e in parte è ancora oggi un problema. In parte ha riaperto le ferite che avevo subito».

Alla fine del suo percorso (nella foto sopra Sergio Devecchi oggi) si ha l’impressione che lei «capisca» tutti, perfino sua madre che l’ha abbandonata appena nato. Ha perdonato tutti?
«Sì. Non do colpe a nessuno. Non sono una persona che lo fa. Anche mia mamma è stata una vittima della società di allora. Alle madri non sposate veniva tolto il bambino. Era una colpa della società. Il mio libro non è un libro di denuncia sulle persone. Se devo fare una denuncia la faccio nei confronti delle autorità, dello Stato, della Chiesa che non hanno messo nessuna mano protrettrice su noi bambini di allora e siamo stati rinchiusi in istituto».

Ci sono stati i mea culpa. Tardivi, probabilmente, ma ci sono stati. Come li ha vissuti?
«Con grande soddisfazione. L’anno scorso li ha fatti il canton Ticino».

Perché avete bisogno che i torti che avete subito vengano riconosciuti?
«Ne abbiamo bisogno perché è giusto. La nostra storia non deve essere riconosciuta dalla società in termini di denaro, deve essere riconosciuta perché è stato un errore. Lo ha fatto la consigliera federale Sommaruga nel 2013 e l’ha fatto Manuele Bertoli l’anno scorso. Si sono messi davanti a noi e hanno detto: noi riconosciamo l’ingiustizia che questi bambini hanno subito in quegli anni in cui sono stati tolti dalla famiglia. Un risarcimento morale che è molto più importante del risarcimento in denaro che adesso il Parlamento ha comunque deciso di elargire a tutte le vittime come atto di solidarietà. È bello, poi, che sia stata istituita una commissione storica per studiare a fondo questo fenomeno e questo periodo raccogliendo testimonianze come la mia. Bisogna chiedersi e cercare di rispondere alla domanda: perché è successo? Come è successo, e soprattutto: come è stato possibile che sia successo e che sia successo proprio in Svizzera?»