Il personaggio

«Io, ticinese durante la crisi a Teheran»

Flavio Meroni era il numero due dell’Ambasciata elvetica in Iran e contribuì alla liberazione degli ostaggi statunitensi: ci ha raccontato la sua incredibile storia
In visita all’ostaggio Bruce Laingen, incaricato d’affari americano. © Flavio Meroni
Stefania Briccola
25.07.2021 20:32

Flavio Meroni non ha dubbi quando parla della sua vita e la paragona al film Sliding doors. Ci sono state occasioni imprevedibili che hanno guidato il percorso del brillante diplomatico poi diventato un esperto nella gestione di crisi. Su come mediare in situazioni di conflitto, Flavio Meroni la sa lunga. È stato il numero due dell’Ambasciata elvetica a Teheran e ha contribuito a rendere grande il nome della Svizzera durante la crisi degli ostaggi americani in Iran, dove il nostro Paese rappresenta tuttora gli interessi degli Stati Uniti. Una vicenda in cui la Svizzera ha giocato il delicato ruolo d’intermediario, con un lieto fine non scontato e una trattativa che ha tenuto col fiato sospeso l’opinione pubblica mondiale, dal 4 novembre 1979 al 20 gennaio 1981, rischiando di sfociare in uno scontro frontale, in piena guerra fredda, tra l’America e l’Unione Sovietica. Al Corriere del Ticino l’ex diplomatico racconta qualche episodio che troverete nel libro L’America in ostaggio. 444 giorni di diplomazia segreta in Iran scritto con altri due testimoni protagonisti della vicenda, l’algerino Mohammed Bedjaoui e l’iraniano Ahmad Salamatian.

Flavio Meroni, come si è svolta la sua formazione?
«Nella mia vita, un po’ come nel film Sliding doors, molte porte si sono aperte e altre si sono chiuse per caso. Dopo la maturità a Lugano, a Zurigo mi iscrissi con un sotterfugio a due facoltà universitarie: diritto e sinologia, ma per capire di più della Cina di allora mi trasferii in seguito all’Istituto Orientale di Napoli, dove mi laureai in scienze politiche per l’Oriente. Poi, all’Ecole pratique des Hautes Etudes di Parigi, scrissi una tesi sui rapporti fra la Cina e la Francia, che fu il primo dei Paesi occidentali a riconoscere la Repubblica popolare cinese anni dopo la Svizzera, che lo fece nel 1949».

Perché ha intrapreso la carriera diplomatica?
«In realtà, volevo diventare archeologo orientalista, ma ero curioso di andare a vedere la Cina moderna, di cui allora si diceva tutto e il contrario di tutto. Con una certa ingenuità andai allora al Palazzo Federale a Berna per chiedere una borsa di studio ma bussai alla porta sbagliata. Mi trovai di fronte l’ambasciatore Erik Lang, che si occupava dei giovani diplomatici. Sentita la mia storia, Lang mi disse di passare il concorso e, prima o poi, loro mi avrebbero mandato in Cina. Tre mesi dopo superai la prova. Il 1° agosto del 1974 ho incominciato il mio lavoro a Berna dove mi incaricarono dell’applicazione della politica di neutralità alle sanzioni contro il regime della Rodesia del Sud».

I contatti con i cinesi erano comunque rischiosi: riuscivo a parlare liberamente con il mio professore di lettere solo fingendo di giocare in mezzo al campo di calcio dell’università

Quando si è aperta un’altra porta?

«Quando lessi sul giornale che il nostro ministro degli esteri Pierre Graber in Cina era stato ricevuto da Zhou Enlai, con cui aveva trattato uno scambio di borse di studio. Riuscii a sospendere la carriera diplomatica per frequentare l’Università a Pechino, dove arrivai il 1° novembre del 1974. I contatti con i cinesi erano comunque rischiosi: riuscivo a parlare liberamente con il mio professore di lettere solo fingendo di giocare in mezzo al campo di calcio dell’Università. Proseguii poi il mio soggiorno in Cina come terzo segretario all’Ambasciata di Pechino».

Come è arrivato nell’Iran di Khomeyni in piena crisi degli ostaggi americani?
«Nell’estate del 1980 ero alla Missione presso le Nazioni Unite quando mi chiamarono urgentemente a Berna, dove il segretario di Stato Edouard Brunner mi disse che c’era bisogno dati gli ultimi avvenimenti di un nuovo numero due all’Ambasciata svizzera a Teheran. E avevano pensato a me. Mi diede un’ora per pensarci, quindi preferii accettare subito l’incarico. In Iran mi trovai a lavorare proprio con l’ambasciatore Lang, personalità particolarmente proattiva ed empatica. Poco dopo scoppiò la guerra Iran-Iraq con un attacco aereo su Teheran, cui assistemmo mentre pranzavamo sotto il portico della nostra residenza con monsignor Hilarion Cappucci, mediatore della prima ora dopo l’occupazione dell’Ambasciata americana».

A che punto era la questione delle 52 persone sequestrate dagli studenti iraniani nell’Ambasciata degli Stati Uniti?
«Eravamo nella fase di stallo peggiore della vicenda perché il salvataggio militare degli ostaggi voluto dal presidente Carter e dal suo consigliere Brzezinski era miseramente fallito nel deserto di Tabas il 24 aprile 1980. Venne così interrotto il labile legame stabilitosi fra le parti disposte a trattare: i governativi moderati intorno al presidente Bani-Sadr e il suo ministro degli esteri, e antagonista, Ghotbzadeh, con il segretario di Stato americano Vance e il suo vice Christopher».

Flavio Meroni alle Nazioni Unite a Ginevra. © Flavio Meroni
Flavio Meroni alle Nazioni Unite a Ginevra. © Flavio Meroni

Perché la Svizzera ebbe un ruolo chiave?
«Il nostro paese rappresentava già gli Stati Uniti a Cuba nonché l’Africa del Sud in Iran, ma anche l’Iran stesso in Israele e in Egitto, che era allora il Paese pilota di una nuova politica araba nei confronti di Israele in seguito agli accordi di Camp David. L’ambasciatore Lang, subito dopo che l’Ambasciata americana fu invasa dagli “studenti della linea dell’Imam” e tutti i suoi funzionari furono segregati sul posto, si assunse con le limitate forze dell’Ambasciata svizzera tutte le incombenze lasciate a Teheran dagli ostaggi. Poi, l’attenta disponibilità e l’intraprendenza della nostra diplomazia nei primi mesi della crisi, apprezzata da ambo le parti, fecero sì che Washington non esitò un attimo a domandarci di rappresentare i suoi interessi e seguire le trattative sul posto. Lang ci aveva d’altronde già aperto molte porte nella capitale della Repubblica islamica. L’Ambasciata svizzera a Teheran era per di più limitrofa al palazzo presidenziale e del governo, dove ci recavamo a piedi anche più volte al giorno».

C’è un momento clou nella vicenda?
«La lotta fra moderati “occidentalizzati” e integralisti conservatori sfociò nelle elezioni parlamentari “vinte” dal Partito della Repubblica islamica e con la nomina, a fine estate del 1980, del primo ministro Mohammed Ali Raja’i, la progressiva esauturazione di Bani-Sadr e la successiva esecuzione di Ghotbzadeh, proprio i nostri più assidui interlocutori. Ma, quando Raja’i si recò all’Assemblea generale dell’ONU, in ottobre, si rese improvvisamente conto dell’isolamento totale del suo Paese, nonostante l’attacco sferratogli dall’Iraq. Da quel momento, gli integralisti, ormai pienamente al potere a Teheran, confrontati con una guerra d’invasione, cercarono un mediatore, come nella loro tradizione quando si tratta di risolvere un affare complicato, e fecero appello al Paese che li rappresentava negli Stati Uniti, l’Algeria. Questa scelta si rivelò vincente per la liberazione degli ostaggi, ma avrebbe poi creato molta insoddisfazione finanziaria e tensioni presso gli iraniani durante l’applicazione degli “accordi d’Algeri”».

La Svizzera come entrò in gioco?
«Al suo ritorno da New York, il primo ministro Raja’i ci dette appuntamento alle 23.00, accogliendoci scuro in volto e al lume di candela in una Teheran in pieno coprifuoco. Ci comunicò allora che avrebbero proseguito il negoziato sfruttando la rappresentanza dei loro interessi dello Stato algerino ma che saremmo stati informati del prosieguo delle trattative. Il nostro ruolo sul posto, per qualche settimana, fu così ridimensionato a quello di semplici intermediari».

Come si arrivò alla fine della vicenda?
«Fummo chiamati di persona, il 20 gennaio 1981, giorno del giuramento del nuovo presidente Ronald Reagan. Pendente l’ultima firma iraniana, con l’ambasciatore Lang dovemmo attendere per ore nell’anticamera della presidenza del Consiglio senza sapere cosa stava veramente succedendo e senza poter comunicare con nessuno. A un certo punto, nel pomeriggio, spalancò la porta della sala d’attesa Behzad Nabavi, il vice primo ministro incaricato di negoziare il testo finale dell’accordo, e ci salutò dicendo: “Voi che ci chiamate barbari, oggi libereremo gli ostaggi”. Al che Lang e io ci alzammo come un sol uomo facendogli notare: “Guardi che lei ha a che fare con dei diplomatici svizzeri e nessun rappresentante del nostro Paese vi ha mai chiamati barbari”. Nabavi si stava riferendo alle parole di Reagan, che aveva pubblicamente accusato Carter in campagna elettorale di trattare con dei “barbari”. Dopo le scuse del nostro interlocutore, Lang tornò in Ambasciata per dare la notizia a Berna e a Washington, per poi raggiungermi all’aeroporto, dove mi recai con Nabavi. Sulla pista trovai due aerei di Air Algérie e in uno di questi mi fecero salire. Mentre aspettavamo, sentii delle urla dal basso, tra cui il ricorrente “abbasso l’America”” e degli insulti contro gli “spioni”. Poco dopo, dalla scaletta in fondo dell’aereo vidi salire, uno per volta, tutti gli ostaggi, frastornati, ma subito sollevati vedendoci. Per la maggior parte li vedevo per la prima volta, mentre alcuni li avevamo potuti visitare regolarmente, in gran segreto, durante tutti quei mesi».

Tornato all’Ambasciata, trovai due amici giornalisti che mi chiesero degli ostaggi. Feci l’errore di rispondere, quando avrei dovuto scansare la domanda come al solito

Ha mai commesso errori durante la trattativa?
«Eccome. Prima dell’ultimo Natale di prigionia resi la solita visita segreta ai tre ostaggi rinchiusi al ministero degli affari esteri. Erano sconfortati perché le trattative per la liberazione incontravano ostacoli che sembravano insormontabili. Tornato all’Ambasciata, trovai due amici giornalisti che mi chiesero degli ostaggi e io invece di scansare la domanda come al solito, mi lasciai andare a rispondere: “Stanno bene, però mi sono sembrati molto tristi”. Il giorno dopo tutti i giornali del mondo titolavano in prima pagina “Diplomatico svizzero dice che gli ostaggi stanno bene”. Passai una notte insonne temendo che questa notizia potesse interrompere le nostre visite segrete. Ho ancora l’articolo dell’International Herald Tribune inviatomi da Berna con dei punti esclamativi».

Cosa fece quando vide arrivare gli ostaggi sull’aereo?
«Alcuni funzionari iraniani salirono sull’aereo dopo l’ultimo ostaggio, Michael Metrinko, tenuto in isolamento per tutti i 444 giorni e che ancora durante il tragitto verso l’aeroporto si era ribellato contro i suoi carcerieri. Ci chiesero l’autorizzazione a partire subito a causa di possibili problemi durante il tragitto notturno, ma io pretesi di accertarmi dapprima della presenza e dello stato di tutti i 52 ostaggi. Mi sembrava il minimo in quelle circostanze. Chiesi alla hostess un foglio, che si trova ora al Museo Carter ad Atlanta, sul quale feci firmare, oltre a scambiare qualche parola con ciascuno di loro, 50 uomini e due donne. Passarono una trentina di minuti, il ritardo sul momento, alle 12.00, del passaggio dei poteri fra i due presidenti a Washington che gli iraniani si erano prefissati per la liberazione e che i libri di storia attribuiranno al “meticolous Swiss diplomat”. Ma solo con quella certezza in mano, a Washington, scoppiarono le urla di gioia e vennero stappate le bottiglie di champagne».

Perché la forma mentis svizzera ha vinto nella diplomazia mondiale?
«Il nostro approccio mentale deve molto alla situazione geopolitica e culturale di una piccola regione di passaggio con grandi aperture verso il mondo. Si è così più facilmente visti come qualcuno super partes. L’affidabilità della nostra diplomazia, durante questa crisi internazionale in particolare, non era dovuta solo all’abilità di un segretario di Stato o di un ambasciatore, ma anche al fatto di avere il timbro della bandiera bianco crociata stampato sulla fronte».

L’incaricato d’affari Bruce Laingen e Anne Swift al loro ritorno negli Stati Uniti. © Flavio Meroni
L’incaricato d’affari Bruce Laingen e Anne Swift al loro ritorno negli Stati Uniti. © Flavio Meroni