Joël Dicker, lo svizzero che ha conquistato gli USA

Joël Dicker, ginevrino, classe 1985, è uno scrittore da diversi milioni di copie vendute, a partire dal suo clamoroso successo planetario (è stato tradotto in quaranta Paesi) La verità sul caso Harry Quebert del 2013 da cui è stata tratta anche una fortunata miniserie televisiva. Un’eccellenza svizzera nel mondo dei bestseller cui abbiamo posto qualche domanda.
Signor Dicker, quando ha capito di essere diventato davvero uno scrittore?
«Non sono ancora convinto di averlo capito, magari lo farò tra cinquanta anni. Spero di essere ancora all’inizio della mia carriera e che mi resti ancora tanto tempo per mostrare questa mia autentica natura di scrittore».
Quando da piccolo le chiedevano cosa avrebbe voluto fare da grande lei rispondeva lo scrittore. Quando ha cominciato a scrivere il suo primo libro si immaginava che un giorno lo sarebbe diventato davvero?
«La professione di scrittore non rientra nelle categorie lavorative. A differenza di un artista che segue la scuola di belle arti o di un pianista che frequenta il conservatorio di musica, non c’è una scuola che ti prepari al mestiere di scrittore. Ci si aggrappa ad un proprio desiderio. La medicina è la medicina dovunque la si studi, la musica anche, dato che la partitura è la stessa. La scrittura no, la scrittura bisogna trovarla».
Si aspettava così tanto successo quando ha cominciato a scrivere il suo primo libro?
«No, ma lo avevo sognato. Sognavo di essere letto. Nella scrittura ci si aggrappa al sogno che tutto questo tempo impiegato a scrivere e riscrivere possa essere letto da qualcuno. La mia non è una letteratura terapeutica. La mia è una scrittura di piacere che non nasce da una difficoltà personale ma che rappresenta la voglia di raccontare una storia. Se non fossi letto non avrei il piacere di poter condividere la storia che scrivo con gli altri».
Se non fosse diventato scrittore cosa avrebbe voluto fare?
«Il poliziotto. A differenza dello scrittore che si dedica per tanti anni allo stesso progetto, il poliziotto è sempre in movimento e fa tutti i giorni delle cose nuove. Lo scrittore deve essere costantemente in empatia coi suoi personaggi e deve dare un motivo alle azioni che compie siano esse giuste o sbagliate. Il poliziotto invece no, non deve giudicare ma comprendere perché un criminale si comporta in quel modo».
Molti dei suoi romanzi sono ambientati in America. C’è una ragione precisa?
«Ho passato molto tempo sulla costa est dove dei miei cugini possedevano una casa. Per me poter scrivere un romanzo dalla Svizzera ma ambientandolo negli Stati Uniti è stato un vantaggio che mi ha dato maggior libertà».
Il fatto di scegliere come personaggi principali degli scrittori è casuale?
«L’ho fatto perché questo mi permette di fare delle domande a me stesso come per esempio che cosa è uno scrittore, qual è la sua identità. Il mio vicino di casa da 15 anni ogni giorno scrive una pagina o due su quello che ha fatto durante la giornata e poi la rilegge. Lui è meno scrittore di me? Ecco, io mi faccio tutte queste domande su chi sono gli scrittori».
Parlando della Svizzera. Si sente legato al suo Paese?
«La riscoperta del mio essere svizzero è avvenuta da quando ho avuto la fortuna di viaggiare e di essere ricevuto nelle ambasciate svizzere nel mondo. Lì ho capito che cosa significa l’identità svizzera, ho scoperto i valori come il lavoro, il rispetto. E sono molto fiero di appartenere ad un popolo che ha costruito la sua identità sulle diversità e sul fatto di vivere tutti insieme».
Qualcuno la considera come la migliore cosa esportata dalla Svizzera, dopo il cioccolato e Roger Federer...
«La cosa mi lusinga ma sono gli Svizzeri che devono dire se li rappresento bene. In Svizzera abbiamo questa cultura di partecipazione agli avvenimenti del Paese, fa parte del nostro DNA. Io lo faccio perché, in questo modo, penso di rendere qualcosa al mio Paese».
Cosa consiglierebbe a un giovane scrittore che si vuole approcciare a questo «mestiere»?
«In diritto c’è un termine “obbligazione dei mezzi” che significa che si deve fare tutto quello che si può per raggiungere un obiettivo. Per me questo è un insegnamento fondamentale. Non è importante superare una difficoltà ma fare abbastanza per superarla».
In un suo libro fa dire a uno dei suoi personaggi che «Trentuno anni è una età importante. La prima decina ti forma come bambino, la seconda come adulto e la terza fa di te un uomo». Cosa farà da grande?
«Ho appena avuto un bambino quindi direi padre. Ad un certo punto della vita è più importante non ciò che costruisci ma ciò che lasci».