La carta d’identità digitale sarà presto reale

Dopo il sì del Nazionale anche gli Stati si esprimono a favore di un’identità elettronica (o eID) fornita da aziende private. Una questione che non piace a tutti: un’alleanza contro le eID privatizzate si prepara a un referendum.
Con 33 voti a favore e 4 contrari, la Camera alta ha accettato la Legge federale sui servizi d'identificazione elettronica. Lo scopo di queste «e-identità» è la dichiarazione dell’identità del suo proprietario in internet. In altre parole: l’eID serve a dimostrare in Rete di essere davvero la persona XY, nata il giorno Z. Per Governo e Parlamento questi dispositivi d’identificazione, con i quali diventerebbe molto più difficile camuffare la propria identità, sono necessari per l’ulteriore sviluppo del commercio online e delle applicazioni e-government (la digitalizzazione della pubblica amministrazione).
Per ottenere un’eID gli utenti dovranno creare un profilo presso fornitori privati («identity provider» o IdP). Questi, come ha spiegato la consigliera federale Karin Keller-Sutter, sono più vicini agli utenti e alle tecnologie necessarie per questo tipo di servizio. Ecco perché per la «ministra» è giusto che lo Stato dia il compito di fornire questi «lasciapassare» a aziende private.
Tra le imprese interessate a offrire allo Stato il loro servizio figurano, fra le altre, la Posta, le FFS, Swisscom, UBS, CS, Raiffeisen, Axa, Basilese, Swica, CSS, Helvetia, Vodese, Zürich e Swiss Life, che si sono riunite in un consorzio con oltre 20 partecipanti denominato Swiss Sign Group con l’intenzione di diventare i futuri IdP. «Gli operatori hanno l’obbligo di distruggere dopo sei mesi i dati concernenti l'utilizzo dell’identità digitale», ha ricordato in aula il «senatore» PPD Beat Vonlanthen (FR), secondo cui la Svizzera in questo campo è «in ritardo rispetto ad altri Paesi europei».
Come sottolineato da Ruedi Noser (PLR/ZH), non bisogna perdere troppo tempo. A fare concorrenza alle aziende svizzere sarebbero infatti colossi come Amazon o Google. Urge assicurarsi che le eID elvetiche restino in mano svizzera. Oltre alla sinistra, che ha tentato invano di rimandare il progetto all’Esecutivo perché questo faccia della creazione delle eID un compito esclusivamente statale, a essere insoddisfatte della decisione sono anche le tre associazioni elvetiche che rappresentano i consumatori – la svizzero-tedesca SKS, la romanda FRC e l’Associazione consumatrici e consumatori della Svizzera italiana (ACSI) –, il portale WeCollect e a gruppi come Digitale Gesellschaft Schweiz (Società digitale) e PublicBeta. Un’alleanza che recentemente ha presentato un sondaggio (realizzato dal’l’istituto Demoscope su un campione di 973 persone) in cui emergeva che l’87% della popolazione vuole ottenere l’identità digitale direttamente dallo Stato, mentre solo il 2% si dichiara favorevole al rilascio da parte di società private. Il 75% degli intervistati inoltre sosteneva di nutrire più fiducia nella Confederazione rispetto alle aziende private. La prova dell’identità è considerata un compito sovrano che lo Stato non può delegare. Il timore è che con la soluzione privata la protezione dei dati non sia garantita.
Da noi contattata, l’ACSI, attraverso la sua segretaria generale Laura Regazzoni Meli, dichiara di mantenere le proprie riserve, ma che prima di eventualmente promuovere un referendum bisogna aspettare una decisione definitiva (la palla infatti torna al Nazionale,il voto conclusivo potrebbe cadere in settembre). Una minaccia più concreta è invece giunta da Che Wagner di WeCollect, che all’ATS ha dichiarato: «Ci stiamo già preparando al referendum».
Qualche inasprimento del progetto votato dal Nazionale c’è stato, anche per cercare di prevenire il referendum: invece dell’Amministrazione federale sarà una Commissione esterna (COMeID) a controllare gli IdP. Il divieto di passare a terzi l’eID è stato stralciato, ma le condizioni per lo scambio di dati sono state rese più severe.
«Tempi maturi, ma attenzione alla troppa fretta»
In mano ai privati le eID sarebbero al sicuro? La tentazione di vendere a scopo commerciale i dati «non può essere esclusa», afferma Paolo Attivissimo, giornalista e consulente informatico, che enfatizza il bisogno di garantire ai cittadini non solo una protezione adeguata delle loro informazioni, ma anche trasparenza riguardo a ciò che si fa per ottenerla. «È indispensabile che ci sia un team di esperti esterni che monitorino la situazione. Pensiamo al caso dell’e-voting e alle gravi vulnerabilità che sono emerse grazie ad una ispezione esterna». Anche per l’eID Attivissimo auspica lo stesso tipo di approccio: anche in questo caso si potrebbero prima invitare hacker a prendere il controllo di un database di prova con dati falsi, prima di mettere in pericolo quelli dei cittadini.
In realtà, aggiunge il giornalista, «non è che il sistema del passaporto cartaceo attuale sia a prova di bomba». Con la nuova identità elettronica però «il livello di sicurezza dovrebbe rimanere almeno equivalente a quello attuale». In altri Paesi, come l’India e l’Estonia, dove l’eID è già realtà, si sono riscontrati problemi come frodi e furti d’identità.
I rischi, spiega ancora Attivissimo, «possono inoltre aumentare se all’eID si aggiungono funzioni come la registrazione della propria cartella medica, informazioni fiscali, fino alla carta per acquistare i biglietti del cinema». In quel caso si parla di «feature creep» o «featuritis», ovvero l’eccessiva aggiunta di funzionalità a un prodotto elettronico. Un caso esemplare di questa «patologia» è quello del numero di previdenza sociale negli Stati Uniti, «che, nato con un’unica funzione, è finito per servire come metodo di controllo dell’identità dei cittadini americani in qualsiasi campo. Con il risultato che hacker cinesi hanno saccheggiato banche dati statunitensi compromettendo tutto il sistema».
«Che sia necessario iniziare a lavorare alla creazione dell’e-ID in Svizzera è vero. I tempi sono maturi», conclude l’esperto. «Un’identità digitale in un’economia sempre più digitale ha senso». Ma una «fretta indiavolata perché gli altri Paesi hanno già fatto passi da gigante e noi siamo gli ultimi» non c’è. Più che aver paura di perdere il treno, «sarebbe necessario assicurarsi di non inciampare nel tentativo di salire a bordo e farsi male».
«Un’opportunità anche a livello educativo»
Carta d’identità reale e carta d’identità digitale: ma davvero si possono ancora distinguere le nostre identità? Matteo Lancini è psicoterapeuta, presidente della Fondazione Minotauro, direttore del master in Prevenzione e trattamento della dipendenza da internet in adolescenza. «Vita reale e vita virtuale non sono realtà parallele o differenti, bensì sono intrecciate in un’unica vita», dice.
Cosa ci dice di quello che siamo, il fatto di necessitare anche di una eID?
«Esiste l’immaterialità del corpo, che si ripresenta sotto diverse forme in rete. Ce lo ricorda questo tema, ci ricorda come vita reale e vita digitale facciano parte di un’unica unità appunto. Qui si apre un dibattito tra tecnoottimisti e tecnopessimisti su quanto questo significhi un potenziare le possibilità identitarie, di esplorazione, di realizzazione del sé, e su quanto in questo non entrino in gioco invece pericoli, rischi, limiti legati al controllo. Gli equilibri, da questo punto di vista, potranno essere tra i più positivi e i più rischiosi, ma di sicuro non ha più senso mettere in atto modelli educativi nei quali ai giovani si tende a far limitare l’uso di questa realtà virtuale: una contraddizione enorme del mondo adulto, che ha costruito una vita reale e una vita virtuale in continuo intreccio, impedendo però questo intreccio nei luoghi educativi. O si ferma la diffusione di internet, oppure bisogna educare le nuove generazioni a utilizzare questi strumenti, senza vietarli loro. Da una parte il tema della carta d’identità digitale può equivalere a un’assunzione di responsabilità, dall’altra anche a un’opportunità educativa».
Anche perché il digitale sarà sempre più centrale.
«L’io virtuale è sempre più quello che governa il mercato e il successo a livello di comunicazione, che determina la nostra realizzazione. Tutto si è spostato online, compresi i nuovi lavori, che per quanto digitali producono soldi veri. I dati della nostra presenza digitale incidono sempre di più. In questo senso, è importante che per i giovani la carta d’identità digitale equivalga a una sorta di patente, in modo tale che il documento sia accompagnato da un’educazione in merito all’utilizzo, ai rischi ma anche alle risorse, come per esempio quelle legate al mondo dei videogiochi. L’identità sarà sempre più digitale, ma non contrapposta al reale».
Diventa difficile quindi identificare una patologia legata al digitale?
«Mentre qualcuno parla di dipendenze patologiche, altri iniziano ad accettare il fatto che l’industria stessa del digitale, in particolare dei videogiochi, abbia in quel mercato l’unico lavoro certo per le nuove generazioni. Sarà meglio quindi non limitarsi a vedere una patologia senza inquadrarla. La psicologia è chiamata a distinguere sempre quelle che sono le patologie dalle nuove normalità. Quella che definiamo come dipendenza dai videogiochi può allora essere letta come una nuova normalità, dovuta al fatto che tutti gli spazi di socializzazione tradizionali non sono più tollerati dalle angosce degli adulti. La psicologia deve essere pronta a distinguere allora le patologie dalle nuove normalità».