Il reportage

La corsa dell'oro passa anche da Mendrisio

Turni da 24 ore per soddisfare la richiesta di oro proveniente dagli Stati Uniti - Viaggio dentro le linee produttive della Argor-Heraeus – Il Co-CEO Robin Kolvenbach: «I dazi di Trump hanno agito da leva» – I volumi alla borsa di New York ora iniziano a calare
Francesco Pellegrinelli
02.05.2025 06:00

Ci siamo. Pochi metri ancora e siamo dentro. Abbiamo dovuto attendere più di un mese per entrare alla Argor-Heraeus di Mendrisio, e vedere con i nostri occhi che cosa accade in una delle raffinerie più importanti al mondo. «Siamo stati molti sollecitati», ammette il Co-CEO Robin Kolvenbach. Lo incontriamo al primo piano del nuovo stabilimento. Da via Moree - dietro il Fox Town - l’edificio spunta in maniera del tutto anonima oltre le mura perimetrali in calcestruzzo. Dall’esterno sembra più un carcere che una raffineria, soprattutto per il filo spinato che vi corre sopra assieme alle telecamere della videosorveglianza appostate come corvi ogni 15 metri.

Mentre attraverso il cancello di ferro grigio, alto poco più di tre metri, per un istante penso al protagonista del Processo di Kafka in attesa di entrare nel portone della Legge. Strana associazione.

La prima domanda che faccio a Kolvenbach è sulla sicurezza. Non vedo guardie armate. «La raffineria è un sistema chiuso. Ermetico. Tutto ciò che entra ed esce viene controllato minuziosamente». Comprese le persone, chiaramente. «I documenti d’identità devono corrispondere a quelli che ci sono stati segnalati prima dell’arrivo di ogni carico». La stessa procedura viene osservata anche per noi. E comunque, durante la visita, una guardia non ci ha tolto gli occhi di dosso.

Eccoci, dunque. Da quando il Financial Times, a inizio maggio ha scritto della straordinaria ondata di ordini ricevuti dalla raffineria ticinese, il prezzo dell’oro è continuato a crescere mentre le Borse hanno subito uno dei crolli più importanti della storia. In due giorni sono andati in fumo qualcosa come 8.000 miliardi di dollari. Una follia. Eppure, questa vicenda, iniziata con la minaccia dei cosiddetti “dazi reciproci” di Donald Trump, s’intreccia, in parte, anche con il Ticino. Insomma, se un giorno qualcuno dovesse raccontare in un manuale di storia che cosa è accaduto tra il 6 e il 7 aprile 2025, un piccolo capitolo lo potrebbe dedicare anche all’oro. E in quel caso, il nome di Argor-Heraeus di Mendrisio non potrebbe certo mancare.

Prudenza e speculazione

«In effetti, la minaccia dei dazi ha agito da leva sul mercato dell’oro», spiega Kolvenbach. «L’elezione di Donald Trump, avvenuta il 25 gennaio scorso, ha generato timori tra gli investitori, in particolare riguardo alla possibilità che il nuovo presidente imponesse dazi sull’importazione di oro negli Stati Uniti. Per questo motivo, molti investitori istituzionali hanno iniziato a trasferire ingenti quantità di oro da Londra a New York». Questo movimento è legato anche al funzionamento della Borsa Comex di New York, dove i contratti futures sull’oro richiedono, alla scadenza, la consegna fisica del metallo. «Normalmente non è un problema: si prendono le barre da 400 once (12,4 chili) conservate in gran parte a Londra, generalmente in uno dei caveau sotto la Banca d’Inghilterra, si rifondono in barre da un chilogrammo (formato richiesto a New York) e si spediscono». Tuttavia, il rischio che Trump imponesse dazi sulle importazioni d’oro ha spinto molti operatori a muoversi rapidamente, accelerando le esportazioni verso gli Stati Uniti.

A questa motivazione prudenziale - osserva Kolvenbach - si è aggiunta una spinta speculativa: si era infatti creata una differenza di prezzo tra l’oro quotato a Londra e quello quotato a New York. «Le banche e gli operatori del settore hanno colto l’opportunità: acquistavano oro a Londra, lo rifondevano in lingotti da un chilogrammo (tramite raffinerie come Argor e altre, ndr), e lo rivendevano a New York a un prezzo superiore. Nonostante i costi di trasporto e rifusione, il margine di guadagno rimaneva interessante».

Volumi quadruplicati

Il primo segnale concreto di questa nuova domanda è arrivato il 6 dicembre, con richieste crescenti da Londra, ricorda il Co-CEO. «L’aumento delle ordinazioni è proseguito fino alla fine di marzo, con volumi quadruplicati rispetto ai livelli normali». Per soddisfare la forte domanda, l’azienda ha aumentato i turni estendendo i cicli produttivi sulle 24 ore. «Ci sono stati alcuni precedenti ma mai con la stessa intensità». Per esempio, ad aprile e maggio 2020, durante i primi mesi della pandemia, gli investitori hanno acquistato oro in grandi quantità. Idem durante la crisi di Lehman Brothers nel 2008. «Abitualmente, prosegue Kolvenbach, registriamo picchi di domanda di oro fisico durante la stagione dei matrimoni in India, che tradizionalmente genera una forte richiesta di lingotti destinati come doni agli sposi. Tuttavia, questi picchi durano in genere poche settimane. In questo caso, invece, la pressione della domanda è durata ben tre mesi e mezzo, un fenomeno decisamente anomalo». A febbraio, ad esempio, la raffineria ticinese ha movimentato 70 tonnellate di oro, pari a un valore di mercato di circa 6 miliardi di franchi. A trainare la richiesta, in parte, sono state anche le incertezze geopolitiche che hanno determinato l’impennata del prezzo del metallo, considerato in questo momento un bene rifugio contro l’inflazione (vedi articolo a destra).

La nuova tendenza

Oggi la forte domanda di oro a New York si è drasticamente ridotta, e con essa le richieste alle raffinerie svizzere. «Da quando Trump ha effettivamente introdotto i dazi sulle importazioni, la situazione si è chiarita e la fase speculativa si è conclusa». L’oro fuso è stato infatti escluso dai dazi e, pertanto, la movimentazione verso gli Stati Uniti si è interrotta. «C’è qualche ultimo ordine in giacenza, ma il fenomeno si è ormai concluso», osserva Kolvenbach. Che rilancia: «Ora, registriamo il movimento contrario. A New York, infatti, c’è molto più oro fisico di quanto sia effettivamente richiesto, e quindi sta iniziando a tornare indietro, verso Londra dove i costi di stoccaggio sono generalmente più bassi. I volumi alla Comex, la Borsa dei metalli di New York, hanno infatti iniziato a scendere lentamente». Le raffinerie svizzere potrebbero quindi essere nuovamente chiamate a trasformare le barre da un chilogrammo in lingotti da 12,4 chili.

Il legame storico

Ancora una domanda: perché le principali raffinerie d’oro si trovano proprio in Svizzera? Non sarebbe più semplice fondere i lingotti direttamente a Londra e distribuire il metallo prezioso dal Regno Unito? In realtà, ci sono almeno due motivazioni: una storica e una legale.

«Quando Argor ha iniziato la sua attività nel 1951, circa l’80% del mercato mondiale dell’oro era concentrato in Italia, grazie alla forte domanda di gioielleria e lavorazioni artigianali», spiega Kolvenbach. La vicinanza geografica al mercato italiano, unita alla solidità del sistema bancario elvetico, ha reso il Ticino la sede ideale. Non a caso, poco dopo si sono insediate anche altre grandi raffinerie come Pamp e Valcambi.

Oltre a questa ragione storica, un secondo fattore – di natura legale – ha consolidato il ruolo della Svizzera come leader mondiale nella lavorazione dell’oro. «La Svizzera è infatti l’unico Paese ad aver introdotto una legislazione specifica per il controllo dei metalli preziosi, istituendo un Ufficio federale preposto alla supervisione delle raffinerie». Questa autorità – prosegue il Co-CEO di Argor-Heraeus – effettua controlli rigorosi attraverso audit accurati e standard molto severi. Per proteggere i consumatori dai rischi connessi al commercio internazionale dell’oro, la produzione di oggetti fusi è regolamentata da normative stringenti ed è riservata esclusivamente alle aziende dotate di licenza. «Particolarmente importante è il ruolo del saggiatore giurato, una figura professionale formata in tre anni, incaricata di verificare e garantire l’autenticità dei prodotti in oro, argento, platino e palladio, sia fabbricati in Svizzera sia importati».

C’è poi un altro elemento distintivo non trascurabile: «In caso di errore nella certificazione dei metalli preziosi, la responsabilità ricade non sulla raffineria, ma direttamente sullo Stato svizzero. Questo sistema offre una garanzia ulteriore ai clienti di tutto il mondo, più importante persino dei costi di lavorazione più elevati rispetto ad altri Paesi». Anche per questo la Svizzera oggi è riconosciuta come punto di riferimento mondiale per la raffinazione e la certificazione dell’oro.

Huckleberry Finn

Prima di concludere, una curiosità. Avete mai tenuto in mano un lingotto da 400 once? Per intenderci sono quelli che si vedono nei film. Vi assicuro, pesano parecchio. Per l’esattezza 12,4 chili ogni singola barra. «Ora capisce perché nei film è poco credibile vedere qualcuno riempire una sacca di lingotti, sollevarla con una mano e scappare via come se niente fosse», spiega Robin Kolvenbach. Ad ogni modo, entrare alla Argor-Heraeus è un po’ come mettere i piedi nella caverna di Ali Babà. Ovunque ti giri, trovi oro. Lingotti grezzi, barre fuse da un chilo, da 400 once, lingotti coniati, lucidi e splendenti, granulati e barre per la lavorazione di gioielli. La quantità di oro presente nello stabilimento, però, è coperta da segreto: «Non è un’informazione che condividiamo, neppure con il personale». Devo ammettere, che, girando per la fonderia, tutto questo oro un po’ di isteria la mette per davvero. E così, per un attimo penso al tesoro di Huckleberry Finn nel Grande romanzo americano di Mark Twain e al legame tra letteratura e oro. Quando, per esempio, Henry Miller in Primavera nera evoca i suoi amici d’infanzia ne parla come di un tesoro nascosto che brilla ancora sotto la polvere degli anni. «I loro nomi tintinnano come monete d’oro (...) Ancora oggi quando nomino Johnny Paul, i nomi dei santi mi lasciano un cattivo sapore in bocca».

L’oro lavorato a Mendrisio proviene da tre fonti principali: «L’oro estratto dalle miniere, l’oro secondario — ossia gli scarti dell’industria e i vecchi gioielli — e le barre standard di Londra che transitano in Ticino per essere rifuse». In termini di volumi, circa un quarto proviene dalle miniere, un altro quarto dall’oro secondario, mentre il restante 50% arriva sotto forma di barre da Londra. Tuttavia, il vero punto di forza di Argor-Heraeus è l’attenzione al controllo della provenienza. «Non solo, tramite l’analisi chimica, siamo in grado di individuare da quale miniera provenga l’oro – spiega il CEO – ma possiamo anche rilevare se è stato aperto un nuovo scavo all’interno della stessa miniera». Una volta arrivato a Mendrisio, l’oro – ancora in forma di lingotti grezzi – viene sottoposto al processo di raffinazione. Durante ogni fase della lavorazione, Argor-Heraeus garantisce linee produttive completamente separate, così che l’oro di ciascun cliente rimanga tracciabile e distinto. In questo modo, chi acquista il prodotto finito ha la possibilità di scegliere la provenienza precisa del metallo, escludendo, se lo desidera, specifiche miniere o siti di estrazione. Dove si trovano le principali miniere d’oro? «In Europa la produzione è molto limitata: solo la Finlandia estrae circa un paio di tonnellate all’anno. L’Africa produce quasi 1.000 tonnellate, mentre America e Asia registrano volumi leggermente superiori. La Russia, da sola, contribuisce con circa 600 tonnellate annue». In totale, l’oro estratto ogni anno dalle miniere nel mondo ammonta a circa 3.500 tonnellate. A questa produzione si aggiunge l’oro secondario – proveniente da scarti industriali e gioielli riciclati – che contribuisce con ulteriori 1.200 tonnellate all’anno.
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