Medio oriente

La Giordania è un fragile «cuscinetto» con un triste primato mondiale

La crisi economica e migratoria sta mettendo in ginocchio il Paese, sempre più pervaso da tensioni politiche
Amman, capitale della Giordania.
Luca Steinmann
15.02.2019 06:00

AMMAN - Nel complesso scacchiere mediorientale la Giordania occupa un ruolo importante. Dal punto di vista geografico – si ritrova infatti nel bel mezzo tra Israele, Iraq, Arabia Saudita e Siria – ma anche politicamente. Le posizioni tutto sommato moderate dei suoi sovrani, hanno infatti consentito al regno hashemita di non farsi coinvolgere direttamente nell’interminabile conflitto che insanguina la regione. Conflitto che comunque non ha mancato di far sentire le sue conseguenze anche al suo interno: il Paese accoglie infatti un altissimo numero di rifugiati (soprattutto siriani e palestinesi ma anche iracheni, yemeniti, sudanesi, somali e di altre nazionalità) che ne fanno, percentualmente, la prima nazione al mondo: sono infatti oltre 2,5 milioni a fronte di una popolazione che supera di poco i dieci milioni di abitanti. Rifugiati che vivono per lo più concentrati all’interno di giganteschi campi profughi e sempre più sotto il controllo – ideologico ed economico – dei Fratelli Musulmani.

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Un fragile "cuscinetto" della zona più calda del pianeta

Indipendente dal 1946, la Giordania è una monarchia costituzionale. Il potere esecutivo è nelle mani del re Abd Allah II che firma le leggi, nomina e rimuove i giudici, dichiara guerra e comanda le forze armate. Il sovrano fa parte della dinastia beduina degli hashemiti, che rivendicano di essere gli eredi diretti di Maometto. Il Parlamento, composto da due camere, è costituito a seguito di elezioni convocate a scadenza irregolare e ha scarsi poteri di controllo sul sovrano, il quale governa in maniera paternalistica ma non particolarmente dittatoriale. Nel 1992 è stato introdotto il multipartitismo che ha permesso la creazione di una trentina di partiti di varia ideologia (comunista, panaraba, salafita o conservatrice), benché la sola formazione rappresentata in Parlamento (all’opposizione) sia il Fronte islamico d’azione, braccio politico dei Fratelli Musulmani. Nel corso degli anni il monarca ha temperato la sua autorità attraverso la cooptazione delle varie forze di opposizione, tra cui appunto i Fratelli Musulmani, che hanno riscosso una parziale legittimazione e un grande sostegno popolare, e che di recente hanno assunto una posizione contestatrice prendendo di mira soprattutto i rapporti con Israele. La Giordania è infatti l’unico Paese arabo assieme all’Egitto ad avere siglato un accordo di pace con Israele nel 1994, oltre ad avere appoggiato gli accordi di Oslo del 1993 che prevedono la soluzione a due Stati del conflitto israelo-palestinese. Le relazioni tra i due Paesi sono però attualmente congelate e duramente criticate da parte dell’opinione pubblica giordana che, essendo per metà di origine palestinese, ha forti simpatie per le rivendicazioni palestinesi e risente fortemente degli episodi di tensione che avvengono a Gaza e nella confinante Cisgiordania. Queste contestazioni hanno raggiunto l’apice nell’estate del 2018 quando migliaia di persone sono scese in piazza per protestare contro il Governo e in particolare contro il decreto sulla tassa sul reddito che fa parte delle misure del quadro siglato con il Fondo Monetario Internazionale nel 2016 e che prevede la concessione di 723 milioni di dollari di credito triennale volti a diminuire il debito pubblico e a spronare una ripresa.

Queste proteste hanno rapidamente assunto un forte connotato anti-occidentale e anti-israeliano e si sono inasprite dopo la decisione dell’Amministrazione USA di spostare l’ambasciata statunitense in Israele da Tel-Aviv a Gerusalemme e la proposta di Donald Trump di creare una confederazione giordano-palestinese come soluzione al conflitto. I dimostranti rivendicavano la sovranità piena sui territori giordani e alcuni chiedevano la totale cancellazione di ogni trattato con Israele, ivi compreso quello legato a due aree a uso agricolo controllate dagli israeliani da dopo la guerra dei Sei Giorni nel 1967. Per questo, il 22 ottobre scorso, su pressione dell’opinione pubblica e su richiesta di 80 deputati, il re giordano ha dichiarato di non voler rinnovare parte dell’accordo con Israele. Nel formulare le proprie rivendicazioni il sovrano hashemita sa di avere una carta importante da giocare: l’interesse degli Stati Uniti e dell’Arabia Saudita a volerlo stabile e sicuro in quanto al centro di interessi strategico-militari ed economici. È infatti soprattutto in Giordania che si tengono gli incontri tra i rappresentati della dinastia saudita e dello Stato ebraico in ottica di normalizzare le proprie relazioni. Ed è in Giordania che, come detto, trovano asilo profughi provenienti da pressoché tutti i Paesi della regione che hanno messo in crisi la sua di per sé fragile economia. Che ora, volenti o nolenti, tutti gli attori sul palcoscenico mediorientale devono sostenere. Per evitare che anche lì si apra un altro pericoloso fronte del loro infinito conflitto.