La lunga marcia dei palestinesi verso Gaza City, la vita ricomincia

Al-Rashid. O, più semplicemente, Rashid. Senza l’articolo. È il nome della lunghissima litoranea che costeggia il Mediterraneo nella Striscia di Gaza. La strada dell’esodo. Sulla quale mezzo milione almeno di palestinesi, nei mesi scorsi, si è riversato fuggendo dai bombardamenti dell’esercito di Israele. Questa mattina, dopo l’annuncio ufficiale del cessate il fuoco da parte del Governo di Tel Aviv, Rashid si è trasformata rapidamente in una fiumana di gente: i gazawi che hanno intrapreso il cammino del ritorno a casa. Molti di loro non troveranno più, una casa, ma soltanto macerie. Nessuno, però, sembra aver voluto rinunciare alla speranza. L’unico sentimento che può reggere il peso della necessaria e tormentata rinascita.
Questa sera, le truppe dell’IDF avevano già completato il parziale ritiro verso le zone interne della Striscia, da dove controlleranno ancora metà del territorio in attesa che si concluda lo scambio di ostaggi e prigionieri. Nessuno può dire, in questo momento, se e quando Israele deciderà di riportare tutti i propri uomini dentro i confini dello Stato ebraico. Poco dopo l’inizio del cessate il fuoco, il primo ministro Benjamin Netanyahu si infatti è rivolto alla nazione in un discorso preregistrato nel quale si è presentato come il capitano di una nave che ha superato ogni tipo di «pressione interna ed esterna», una nave la cui rotta resta orientata unicamente verso la sicurezza di Israele.
Netanyahu ha rivendicato il merito di aver assicurato il rilascio degli ultimi ostaggi senza che le truppe dovessero ritirarsi completamente da Gaza e ha presentato il cessate il fuoco come il risultato di una miscela di «massiccia pressione militare e politica» del presidente degli Stati Uniti Donald Trump. «Abbiamo promesso e abbiamo mantenuto», ha detto. Aggiungendo, subito dopo, che Hamas ha accettato l’accordo soltanto quando ha sentito la spada appoggiata sul suo collo, ed è ancora sul suo collo. Hamas sarà disarmato e Gaza sarà smilitarizzata. Se questo si ottiene nel modo più semplice, tanto meglio. In caso contrario, sarà raggiunto nel modo più duro», ha detto Netanyahu.
Un messaggio, quest’ultimo, evidentemente rivolto ai partner ultranazionalisti che giovedì notte hanno votato contro l’accordo nella seduta fiume del Governo alla quale, cosa assolutamente inusuale, hanno preso parte anche l’inviato USA Steve Witkoff e il genero di Trump, Jared Kushner.
Un segnale chiaro
Il ritardo con il quale, giovedì sera, l’esecutivo di Tel Aviv si è riunito per decidere sull’intesa con Hamas e la presenza dei due emissari della Casa Bianca sono stati segnali inequivocabili delle difficoltà di Netanyahu nel fare accettare anche soltanto la fase uno del piano di pace. Dopo aver detto e ripetuto per due anni come la cancellazione di Hamas fosse l’obiettivo minimo della campagna militare nella Striscia, il premier israeliano ha dovuto cedere alle richieste di Washington. Cinque dei suoi ministri, tra cui Itamar Ben-Gvir, Bezalel Smotrich e Orit Strock, hanno inevitabilmente votato contro l’intesa. Manifestando un dissenso radicale. Secondo una fonte presente alla riunione e citata da tutti i media israeliani, il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben-Gvir, avrebbe addirittura detto a Witkoff che un accordo con Hamas sarebbe stato simile a un accordo con Adolf Hitler.
La forza di pace
In ogni caso, una forza militare di pace garantirà l’applicazione di quanto deciso giovedì a Sharm el-Sheikh. Gli Stati Uniti hanno stanno inviando 200 soldati in Israele per monitorare l’attuazione dell’accordo di cessate il fuoco. Si tratta, per lo più, di pianificatori militari e specialisti di logistica, sicurezza e altri campi di supporto. Il Comando centrale USA, guidato dall’ammiraglio Brad Cooper, istituirà un centro di coordinamento civile-militare a Tel Aviv. Alle truppe americane - che non sono destinate a entrare a Gaza - si uniranno uomini provenienti da alcune delle nazioni della regione, tra cui i mediatori dell’intesa - Egitto e Qatar - la Turchia e gli Emirati Arabi Uniti.
Secondo quanto riferito da una fonte del Pentagono al New York Times, «l’obiettivo del centro di coordinamento sarà costruire un hub di esperti militari, politici e umanitari che aiutino a coordinare tutto: dall’assistenza ai civili al supporto alla sicurezza e all’esecuzione dell’accordo di cessate il fuoco».
Intanto, Israele ha dato il via libera alle autorità delle Nazioni Unite per iniziare a consegnare aiuti a Gaza a partire da domenica. Lo ha confermato una fonte ONU all’Associated Press. Gli aiuti includeranno le 170 mila tonnellate stoccate nei Paesi confinanti. Già oggi però, secondo quanto riferito dal canale saudita al-Arabiya, alcuni camion hanno iniziato a dirigersi verso il nord della Striscia dopo l’apertura al traffico della strada Salah a-Din.
La liberazione dei prigionieri
Sempre oggi, grande risalto è stato dato dalla stampa israeliana alla lista dei nomi dei detenuti palestinesi che, in base all’accordo, saranno rilasciati nelle prossime ore. Usciranno di prigione 250 ergastolani, ma non l’uomo che, negli anni, è diventato, tra i suoi connazionali e per l’opinione pubblica di tutto il mondo, il simbolo della lotta di liberazione nazionale palestinese. Marwan Barghouti, 66 anni, da 23 detenuto nel deserto israeliano di Neghev, a Nafha, resterà in carcere. Il rifiuto di liberare Barghouti è un ulteriore, ennesimo e chiarissimo segnale della volontà di Netanyahu di opporsi in ogni modo alla nascita di uno Stato palestinese. Barghouti, spiegano molti analisti, è un leader credibile per carisma, popolarità e pragmatismo, il Mandela palestinese: una volta libero, potrebbe facilmente prendere il posto dell’attuale presidente dell’Autorità nazionale palestinese, il 90.enne Mahmoud Abbas (Abu Mazen), privo ormai di ogni autorevolezza interna e internazionale. Barghouti fa quindi molta paura a Netanyahu, ma non solo. Pur avendo affermato più volte di non voler essere il leader dei palestinesi, Barghouti chiede da tempo elezioni democratiche nei territori occupati: uno scenario da incubo sia per Israele, sia per Hamas, sia per Abu Mazen. Ecco perché la sua mancata liberazione, in fondo, potrebbe non essere stata un grande dispiacere per i gruppi dirigenti dell’ANP e della milizia islamista.
«Non sono un terrorista, ma non sono neppure un pacifista - aveva detto Marwan Barghouti nel 2022 al Washington Post - Sono semplicemente un normale uomo della strada palestinese, che difende la causa che ogni oppresso difende: il diritto di difendermi in assenza di ogni altro aiuto che possa venirmi da altre parti».
In alcune sue lettere dal carcere, inviate alla moglie Fawda - un’avvocata, nota per la difesa dei diritti delle donne - e pubblicate, tra l’altro, anche dal New York Times, Barghouti ha proposto una road map politica inter-palestinese come alternativa al braccio armato di Hamas e al «cerchio magico» di Abu Mazen, e ha parlato di un «progetto nazionale in grado di mobilitare energie e competenze, per costruire istituzioni efficaci in nome di principi e valori della democrazia, nel rispetto del pluralismo politico, della libertà di pensiero, dell’alternanza di potere».