Conflitti

La normalità della guerra in una terra contesa da decenni

Il reportage di Luca Steinmann da Sotk, in Armenia, per fare il punto sulle tensioni nel Nagorno-Karabakh
© Luca Steinmann
Luca Steinmann
17.04.2023 06:00

Mentre cammina tra le macerie, Sevak Khathaturyan alza il braccio al cielo e indica le alte montagne innevate tutt’intorno. Le cime non si vedono perché immerse in una fitta coltre di nebbia. «I turchi sono lassù», dice «è da là che ci hanno bombardato. Ora che c’è la neve è difficile che scendano in pianura, ma appena si scioglierà temiamo che proveranno a conquistare il nostro villaggio».

Li chiama turchi, come in Armenia fanno tutti, ma in realtà si riferisce all’esercito dell’Azerbaigian. Khathaturyan è il capo dell’amministrazione di Sotk, villaggio armeno di 800 anime situato sul confine azero. Lo scorso settembre i soldati di Baku hanno lanciato un’offensiva, conquistando diverse posizioni sulle montagne circostanti e bombardando pesantemente verso valle. «Metà della popolazione di Sotk è scappata», racconta mostrandoci i segni dei missili «grad» piovuti sul centro abitato. «Il loro obiettivo è proprio farci fuggire così da poter presto occupare questo territorio». I pochi abitanti rimasti temono che la guerra sia imminente. Già ora si verificano quasi quotidianamente scontri armati lungo tutta la linea di contatto, con diversi morti e feriti. Con lo sciogliersi della neve si teme che l’Azerbaigian lanci un’offensiva su larga scala per occupare gran parte dell’Armenia.

La pace punitiva

La crisi tra Armenia e Azerbaigian dura da più di trent’anni e si è intensificata nel 2020 quando l’esercito azero, con l’appoggio militare della Turchia, ha attaccato il Nagorno-Karabakh, contesa regione di confine che secondo il diritto internazionale appartiene all’Azerbaigian ma che allora era abitata esclusivamente da armeni e amministrata da una repubblica non riconosciuta controllata da Yerevan. Attraverso la loro inarrestabile avanzata, i soldati di Baku hanno costretto l’Armenia a firmare una pace punitiva che ha sancito il passaggio di gran parte del Karabakh sotto il controllo azero e l’esodo di massa della popolazione. Le uniche parti rimaste in mano armena sono la città di Stepanakert e i suoi dintorni, che sono diventati un’enclave. Lì oggi vivono ancora 120.000 armeni in una difficile situazione umanitaria. Circondati dal nemico, possono raggiungere l’Armenia solo attraverso uno stretto che passa attraverso le posizioni militari azere: il corridoio di Lachin, controllato da un paio di migliaia di soldati russi che in base agli accordi di pace sono chiamati a garantire la circolazione delle persone e delle merci e la protezione degli armeni rimasti in Karabakh.

La tensione cresce

Negli ultimi due anni e mezzo, però, la situazione è peggiorata drasticamente: grazie alla fragilità di Yerevan, militarmente devastata dalla guerra e vittima di conflitti politici interni, l’Azerbaigian ha iniziato a rivendicare il controllo non solo di tutto il Karabakh, ma anche di gran parte dell’Armenia, compresa la capitale. Ora Baku chiede un corridoio extraterritoriale che, tagliando in due l’Armenia, colleghi l’Azerbaigian alla Turchia, cosa che Yerevan rifiuta. La tensione è diventata così alta da sfociare più volte in scontri militari. A maggio e novembre 2021 e a settembre 2022, i soldati azeri hanno attaccato non il Karabakh ma direttamente l’Armenia, conquistando aree in tre sue regioni di confine. Da allora, l’Azerbaigian ha occupato un totale di 150 chilometri quadrati di territorio armeno e vi ha stabilito numerose postazioni militari.

Il corridoio di Lachin

La tensione ha raggiunto il picco nel dicembre 2022, quando un gruppo di autoproclamati attivisti per il clima, controllati in realtà da Baku, ha occupato il corridoio di Lachin, bloccando il traffico e isolando completamente gli armeni del Karabakh: 120.000 persone sono quindi bloccate a Stepanakert, con carenza di cibo, medicine, gas e benzina. Marut Vayan è una giornalista quarantenne di Stepanakert. Ci chiama di notte, in un momento in cui ha la corrente. «Ogni tre ore viene spenta perché non ce n’è abbastanza», dice. «I generatori non possono più arrivare dall’Armenia. Guardando fuori dalla finestra, tutto è buio e deserto. Le uniche luci provengono dalle aree controllate dall’Azerbaigian sulle colline intorno a noi». Gli unici prodotti disponibili sono occasionalmente introdotti dai russi e dalla Croce Rossa Internazionale, ma appena messi in vendita si esauriscono immediatamente, i prezzi sono diventati molto più alti e la disoccupazione è dilagante. Qualora l’Azerbaigian conquistasse Stepanakert, l’intera popolazione attuale potrebbe fuggire, annientando così definitivamente qualsiasi presenza armena nel Karabakh. Molti temono che ormai sia solo questione di tempo.

Il paradosso

In questa situazione, la Russia non sta intervenendo militarmente né condannando a gran voce le aggressioni azere. Ciò è dovuto in parte al suo impiego nel Donbass, ma anche al fatto che grazie alla guerra in Ucraina l’Azerbaigian si trova in una posizione di forza politica straordinaria. Baku mantiene un ruolo di partenariato strategico sia con Mosca che con l’Unione Europea (e la Svizzera). Poiché l’Occidente non può più acquistare idrocarburi dalla Russia a causa delle sanzioni, l’approvvigionamento dall’Azerbaigian, che è un grande produttore di idrocarburi, è diventato vitale. L’11 luglio 2022, il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha firmato un memorandum d’intesa con Baku per raddoppiare le esportazioni di gas azero verso l’UE. Allo stesso tempo, diversi rapporti indicano che la società di Stato russa Gazprom ha recentemente raggiunto un accordo con l’Azerbaigian per fornirgli un miliardo di metri cubi di gas. Questo è destinato al mercato interno azero, il che non dovrebbe violare la politica delle sanzioni occidentali contro la Russia. Sul piano politico, però, gli armeni stanno pagando il prezzo. Baku vede un’opportunità storica per esercitare pressioni sui suoi nemici mentre nessuna potenza internazionale sembra realmente pronta ad aiutarli. Paradossalmente, per provare a proteggersi, Yerevan sta aprendo alla normalizzazione dei suoi rapporti con la Turchia, suo storico nemico e grande sponsor dell’Azerbaigian, nella speranza che possa mettere un freno alle mire espansionistiche azere. «Il riconoscimento del genocidio armeno da parte di Ankara non è mai stato una precondizione da parte armena per la normalizzazione delle relazioni con la Turchia», dice Artur Vanetsyan, uno dei principali leader dell’opposizione all’attuale governo armeno. «Circa un decennio fa, grazie agli sforzi di mediazione della Svizzera, vennero firmati documenti tra Armenia e Turchia per normalizzare le relazioni bilaterali senza che la questione del genocidio fosse un ostacolo. Fu però Ankara a rifiutarsi di ratificare quei documenti, e la ragione di ciò non era la questione del genocidio bensì le reticenze turche legate al Nagorno Karabakh». Oggi, paradossalmente, gli armeni pur di salvarsi cercano il sostegno del proprio grande storico nemico.