La nostra recensione a "Sangue"

L'Italia è un Paese che ha alle spalle un periodo tragico e sanguinoso, quello dei cosiddetti «anni di piombo», che ha lasciato dietro di sé ferite che non si sono ancora rimarginate. Basti pensare al dolore e al lutto delle vittime del terrorismo, di qualsiasi matrice politica. In questo contesto, un regista teatrale di fama internazionale - Pippo Delbono - decide di girare un film ( Sangue , passato ieri in concorso) «a budget zero», almeno secondo lui ma che può comunque contare sui finanziamenti della RSI e della Cineteca svizzera, inserendo tra i protagonisti l'ex leader delle BR Giovanni Senzani, accusato di crimini efferati, uscito da poco dal carcere e ufficialmente mai pentito (vedi la sua biografia a lato). Nella sua presunzione (o nella sua incoscienza), Delbono crede che una simile operazione sia gestibile in modo semplice, basandosi unicamente sull'amicizia che lo lega a Senzani e sul loro contemporaneo lutto (il regista nel film perde la madre, Senzani la compagna). Ma cosa crede Delbono? Che un simile personaggio possa fare indisturbato il suo ritorno sulle scene pubbliche - grazie al beneplacito dei selezionatori del Festival di Locarno - limitandosi a raccontare, come fa nel film, due episodi: la sua prima notte dopo l'arresto, durante la quale sarebbe stato costretto a rimanere in ginocchio con i soli slip addosso e un cappuccio in testa, e un'agghiacciante ricostruzione dell'uccisione dell'ostaggio Roberto Peci, mettendo l'accento unicamente sullo squallore del luogo dove è avvenuta e sul fatto che «per pietà» si è sincerato della morte della vittima. Non una parola di pentimento, né di rimorso, ma una tronfia fierezza nel ricordare come abbia saputo sopravvivere alle «torture subite in carcere». Delbono ci mette poi anche del suo, quando nella scena finale del film, girata tra gli edifici in rovina del centro storico de L'Aquila, il suo commento in voce off si spinge a evocare un «ritorno alle armi» per risolvere i problemi dell'Italia di oggi. Grazie alle sue naturali doti di affabulatore, Delbono è in grado di dribblare qualsiasi critica, come ha fatto ieri durante gli incontri con la stampa, ma si sarà mai posto degli interrogativi morali ed etici, oppure avrà imballato il tutto con il fiocco della sua pratica buddista? E, più vicini a noi, il direttore artistico del Festival e i coproduttori svizzeri?
Al di là di questi interrogativi extracinematografici ma non troppo, Sangue è un film girato con il telefonino da qualcuno che non sa come si usi una videocamera (vedi la penosa panoramica sul corteo funebre di un altro BR, Prospero Gallinari) che fortunatamente viene soccorso in diversi frangenti dall'aiutante losannese Fabrice Aragno. Quanto al lutto vissuto da Pippo Delbono, nessuno può dubitare della sua sincerità e del suo affetto nei confronti della cattolicissima madre, ma di certo la sua vicenda è molto simile a quelle che possono aver vissuto molte altre persone che non hanno comunque mai risentito il bisogno di costruirci sopra un film. Il confronto fra Storia e storie personali, tra riflessione sulle morti e le vite dei singoli e la Vita e la Morte come concetti astratti risulta quindi claudicante e poco approfondito e Delbono e Senzani sembrano per davvero sperduti - pur utilizzando il navigatore - sulle strade di un Paese che di certo dimostrano di fare molta fatica a capire.