«La nostra storia inizia con la Shoah, ecco perché dobbiamo ricordare»

Professor Prosperi, oggi è il Giorno della Memoria. Il mondo ricorda la Shoah, lo sterminio del popolo ebraico nei campi di concentramento nazisti. Perché è importante, per noi, conservare la memoria di questa «tragedia assoluta» della storia?
«La Shoah è l’inizio della nostra storia di uomini contemporanei, un punto di svolta. È come il diluvio universale per gli antichi o il Rinascimento per l’umanità del Medioevo. Con una differenza: si tratta di qualcosa che non può essere compreso - poiché comprendere vuol dire perdonare - ma soltanto conosciuto. Il Giorno della Memoria è anche una sorta di avvertimento, serve a fare in modo che quanto accaduto non si ripeta».
In apertura del suo libro lei cita lo storico russo Jurij Michajlovič Lotman: «La distruzione di una cultura si manifesta come distruzione della memoria». Corriamo davvero il pericolo che la memoria della Shoah sia cancellata?
«Io penso che il problema esista e abbia forme diverse, a partire dallo smarrimento delle nuove generazioni che non ricevono più un’eredità di memoria da chi le ha precedute, ma nemmeno dalla famiglia o dalla scuola. La storia è diventata marginale, e in Italia si è riusciti addirittura a cancellarla dall’esame di maturità. Purtroppo, sembra essere conclusa per sempre la grandissima stagione della storiografia ottocentesca, quella in cui lo storico formava la classe dirigente dei singoli Paesi. A lungo gli uomini di governo sono stati storici-pratici, persone in grado di trasmettere il senso della storia ai cittadini. Purtroppo, l’offuscarsi della coscienza e della conoscenza storica nella società sembra passare quasi inavvertito. Eppure è un fenomeno diffuso in molti ambienti e in diverse fasce sociali, minaccia specialmente le nuove generazioni e il mondo della scuola, e devasta quello della politica».


Lei sostiene che «il mutamento epocale» indotto dalle tecnologie digitali ha «allontanato vertiginosamente il presente dal recente passato» e che «la rivoluzione informatica, o più in generale il trionfo di una cultura del mutamento e del progresso tecnico e scientifico, ha accelerato oltre ogni precedente la velocità della trasformazione del mondo». Una trasformazione, però, non sempre in positivo.
«Il progresso tecnologico non ha aiutato la memoria, che non è un’identità neutra; il progresso è stato reale, molte conoscenze si sono rese disponibili, ma il “presentificarsi” della vita ha fatto scomparire il passato e dileguare l’avvenire. Concentrarsi sul presente significa cancellare le premesse necessarie per costruire il futuro; ci è stato scippato il senso della vita come qualcosa fatta di un passato che va verso l’avvenire».
Ma come si può dare, allora, un futuro alla memoria oltre la durata della generazione dei testimoni?
«Ad esempio, proprio con iniziative simili a quella che celebriamo oggi. Il Giorno della Memoria è stato istituito a ragione quando quel passato che non passava ha chiesto di essere riconosciuto. Oggi c’è una guerra attorno a che cosa ricordare: guerra sociale e politica. Nel nostro sistema si tende spesso a nascondere ciò che accade, e al posto del recupero serio e documentato delle conoscenze del passato prevale talvolta il cosiddetto “capitalismo della sorveglianza”, espressione coniata dalla filosofa americana Shoshana Zuboff che individua l’insieme delle connessioni digitali cui tutti siamo intrecciati».
Un grande fratello che riscrive la storia giorno per giorno?
«Non proprio. Direi piuttosto un apparato complesso che domina persino la libertà di parola. Le faccio un esempio: non tutti si sono resi conto dell’enormità di quanto fatto da Twitter nel momento in cui ha oscurato gli account del presidente Trump. La libertà di espressione è oggi proprietà di un’azienda privata».
Ma è la Rete che ingabbia la storia e la memoria o sono gli uomini che restano intrappolati senza accorgersene?
«Oggi la trasmissione di ricordi e di esperienze da un’età all’altra, dai più vecchi ai più giovani, sembra avere smarrito i suoi canali. Al posto della voce narrante degli anziani, della famiglia, è subentrato un consumo personale di racconti, immagini e informazioni fornite di continuo e in grande abbondanza dai mezzi di comunicazione di massa. Un archivio disponibile sempre e dovunque a richiesta, come le merci dei supermercati. Ciascuno può trovare quello che lo diverte e lo incuriosisce di più, senza fatica, già pronto. Il punto è che non si sa chi abbia cucinato quelle informazioni, quando e a quale scopo: proprio come le merci dei supermercati o i piatti pronti nelle mense collettive. L’informazione come merce viene offerta in modo da stuzzicare curiosità e alimentare umori e idiosincrasie di individui isolati, che vengono cosi incoraggiati a chiudersi sempre più nella coltivazione dei propri orizzonti mentali».


Lo storico francese Pierre Vidal-Naquet, che lei cita nel suo libro, parlava degli «assassini della memoria».
«La memoria degli uomini è divisa: c’è chi ha interesse a mantenere lo statu quo ante e chi punta al cambiamento. Il sistema sociale di oggi non incoraggia la memoria perché vuole che le persone vivano unicamente nel presente. C’è chi dice che il passato conta niente e qualcuno si è spinto sino ad affermare che la storia è finita».
Tornando alla Shoah, nei testimoni emerge anche una fatica del ricordo. Liliana Segre, nel suo ultimo intervento pubblico a Rondine, il 9 ottobre dello scorso anno, ha detto: «Adesso basta, ho bisogno di riposarmi, non voglio più ricordare».
«Ricordare è faticoso. Conosco persone che hanno vissuto quel dramma e non vogliono parlarne. Perché ricordare qualcosa che non ha riscatto è un grande dolore. Raramente i testimoni della Shoah hanno resistito sino alla fine in vita: c’è un peso dell’offesa ricevuta e vissuta che incupisce, e l’oblio estremo si può ricercare nel chiudere la memoria dentro di sé. Tuttavia, oggi si corre il pericolo che tutto venga cancellato e quindi c’è l’obbligo di ricordare».
C’è un passaggio molto interessante del suo libro: è quello in cui lei, citando Barbara Spinelli, solleva il dubbio che avere «monumentalizzato» il ricordo della Shoah sia stato probabilmente un errore. Sia perché in questo modo si espongono i simboli agli insulti e ai vandalismi, sia perché «sollevare la Shoah al di sopra della storia umana» può diventare un modo per «evitare di guardarla in faccia».
«Il monumento, per definizione, “ammonisce” ma è anche un modo per “ritagliare” la storia e fare in modo che la vita possa andare avanti. In fondo, la monumentalizzazione è un modo per dimenticare, per lavarsi la coscienza. Aiuta, ma non troppo. La storia monumentale serve a chiudersi le porte del passato alle spalle. Ma senza il passato non c’è la possibilità di progettare l’avvenire. Come diceva Eliot, “il tempo futuro è contenuto nel tempo passato”.
Professore, le faccio un’ultima domanda: la questione della memoria della Shoah riporta a guardare al mondo di cultura tedesca dove negli ultimi anni c’è stata la progressiva crescita, sul piano elettorale, di un partito di estrema destra che si richiama al nazismo. Com’è stato possibile?
«Purtroppo, la cultura storica tedesca ha lottato a lungo per cancellare il carattere insuperabile della Shoah e del nazismo. Quando la storia diventa strumento politico succede anche questo: si tenta di dimenticare alcune cose, si immagina di imporne altre. In realtà, credo che non ci sia mai stata una vera politica di confronto con ciò che è accaduto. Già negli anni ’70 molti giovani tedeschi non sapevano che cosa avessero fatto i loro padri. Io stesso intervistai all’epoca un ufficiale nazista che aveva partecipato alla strage di Padule del Fucecchio (23 agosto 1944) convinto di aver unicamente obbedito agli ordini».