La parabola di Spiderman

La parabola dei talenti è probabilmente il passo biblico che ha avuto la maggiore influenza sulla mia vita. Mentre la cerco per rileggerla (Matteo 25, 14-30), mi accorgo tuttavia che ne ho assimilato una versione contraddistinta da una piccola –ma sostanziale –modifica, rispetto all'originale.
In entrambe le storie – quella canonica e la Broggini's cut – il padrone, in partenza per un viaggio, lascia ai suoi fedeli servitori una somma da amministrare: rispettivamente, i tre ricevono cinque, due e una moneta (il famoso «talento») a testa. Il Vangelo racconta poi come i primi due servi riescano a fare raddoppiare le somme consegnate loro,mentre il terzo decida, per paura, di sotterrare il suo unico talento, presentandolo poi – tale e quale – al ritorno del padrone. A costui, narra Gesù, viene riservato il proverbiale destino da «pianto e stridor di denti», per essere stato indolente e non avere messo a frutto quel che gli era stato donato.
L'unica differenza, nella «mia» versione della parabola, riguarda l'identità del sotterratore: è il servo che aveva ricevuto dal padrone la dote maggiore, ovvero cinque talenti. Meditando sul perché di questa discrepanza, mi rendo conto che la sua radice è una fonte del tutto profana. In effetti, l'idea che sia il servo migliore ma pigro a meritare la punizione, arriva dritta dritta dalle avventure a fumetti di Spiderman.
Come ricorderà chi ha visto il primo film della recente saga cinematografica, la vera pietra miliare – nel pensiero morale dell'Uomo ragno – è infatti l'insegnamento lasciato in eredità a Peter Parker dall'adorato zio Ben, nell'ora della sua tragica morte; «A grandi poteri corrispondono grandi responsabilità». A questo punto, la traiettoria della mia riflessione – a metà tra Bibbia e cultura pop – si innesta sul ramo della cronaca. Perché, qualche mese fa, un'intervista rilasciata da Gian Antonio Stella al nostro quotidiano mi ha fatto trasecolare.
La domanda posta al noto giornalista – assai critico verso il Parlamento italiano – era impregnata di buon senso, e impossibile da non sottoscrivere, almeno a prima vista: «Ma la classe dirigente non è la fedele espressione della comunità che rappresenta?». La risposta di Stella, tuttavia, scompagina come un fulmine i luoghi comuni; «Certo, lo può essere. Ma noi, ai Mondiali di calcio, non abbiamo mica mandato una squadra che rappresentava fedelmente l?Italia. Se no avrei potuto andarci anch?io, a fare il centro-mediano».
Lette queste parole, non dobbiamo che guardare dentro i nostri confini. E non tanto per denigrare chi siede ai posti di comando; perché in fondo, se abbiamo una classe politica «specchio del Paese» – e un suo esponente di primo piano beccato che fa il verso della scimmia quando vede un giocatore di hockey dalla pelle nera – è solo perché non c'era nessun altro da fare accomodare su quelle poltrone. Le parole di Gian Antonio Stella, perciò, devono tuonare nelle orecchie dei migliori, che si sono ritirati dalla cosa pubblica per farsi quelli che i giovanissimi chiamerebbero «i cazzi loro». Siete voi a meritare pianto e stridor di denti. Per averci lasciati soli.